Regra 34 di Julia Murat, Pardo d’Oro nel Concorso Internazionale all’ultimo Festival di Locarno, sin dalla primissima scena si dichiara come un film sulla decostruzione e la riappropriazione del potere attraverso il sesso da parte di una donna, nel contesto di un Brasile contemporaneo ancorato a un sistema retrogrado e patriarcale. La protagonista Simone ci viene presentata attraverso la cornice di chaturbate: si sta esibendo sul sito di webcam porno per degli utenti anonimi che usano nickname come “MR COCK” o “BIGDICK” o “LESBIAN85”.

Dicevamo, decostruire e riappropriarsi. Vediamo Simone per la prima volta in uno spettacolo di cui è regista: è lei a scegliere luci, inquadratura, svolte narrative del suo show. Sorridente e generosa, si regala alla webcam e si percepisce il suo divertimento e coinvolgimento. A Simone piace masturbarsi davanti alla camera e ha un rapporto diretto con i suoi follower ormai fidelizzati, che chiama per nickname. Quando la regia passa da Simone alla Murat, quindi dalla webcam alla camera, capiamo subito che si tratta di un passaggio di testimone – simbolico, s’intende – di sorellanza e di fiducia. Murat vede Simone come Simone vorrebbe essere vista, inquadra il suo sesso mentre si avvicina all’orgasmo dal punto di vista di qualcuno che sta facendo l’amore con lei, o di un’amica fedele, mai pornografico o voyeuristico. Simone, passando dai panni della camgirl a quelli della studentessa di legge, ringrazia gli utenti che le hanno permesso, retribuendo le sue performance, di avviare la sua carriera.

Inizia così in Regra 34 un alternarsi di momenti della doppia vita della protagonista, di giorno dedita alle lezioni in classe come aspirante pubblico difensore, e di notte, nel privato, alla continua esplorazione della sua identità sessuale, sia come camgirl che come giovane donna, intrecciando amicizia e relazioni erotiche con suoi coetanei e colleghi Lucia e Coyote. Nella professione legale si delinea fin da subito il suo impegno di donna razzializzata e bisessuale, convinta di poter agire a difesa delle categorie più vulnerabili. Proprio per questo comincia a lavorare in un’istituzione che combatte la violenza di genere, in un paese che si colloca al quinto posto per numero di femminicidi nel mondo. Tutto suggerirebbe una svolta nella trama che metta in conflitto la possibilità che queste due anime della protagonista possano convivere. Eppure la svolta non avviene, e il film acquisisce forza dall’eludere tali aspettative e ricollocare la questione centrale al racconto su un piano di pericolosa ambiguità, indagando il ruolo della violenza nella riappropriazione del proprio corpo e dei propri diritti.

Simone, infatti, si avvicina al mondo delle pratiche BSDM, traghettata fino a un certo punto dalla sua amica Nat, fotografa di nudo artistico e sua confidente per quanto riguarda il sex work. La regola a cui fa riferimento il titolo è una delle tante istaurate da chi pratica il sadomasochismo per minimizzare i rischi e creare un rapporto di fiducia con i/le partner. Nonostante Nat la metta in guardia, Simone vive con voracità e impazienza la sua iniziazione che sperimenta con Lucia e Coyote, e sembra essere affascinata proprio dall’aspetto più distruttivo e rischioso della pratica BSDM. “Non puoi considerare il BSDM fuori dalla società, il mondo è pieno di tipi strani” si sente dire dall’amica. Ed è qui che si arriva al nodo cruciale. Se ogni giorno Simone ascolta le storie di donne abusate e svilite nel corpo e nello spirito da uomini padroni, constatando che la società brasiliana pare intossicata dal potere violento degli uomini e dello stato, come può non considerarne l’influenza anche in ciò che per lei è più privato? “Lo faccio perché mi eccita” è la sua risposta a Lucia, preoccupata per le conseguenze delle sue ossessioni. Eppure il dubbio su quale sia la natura di questa eccitazione e quale sia il limite che ne definisce la pericolosità rimane. Quando durante una performance in webcam gli utenti le chiedono insistentemente di praticare l’autosoffocamento, ad esempio, non basta il suo diniego. Gli utenti/clienti ristabiliscono presto i ruoli: noi ordiniamo, tu esegui, e noi vogliamo vederti soffrire. Quanto Simone può cedere a questi desideri, senza perdere il controllo su di sé? Quanto il proprio bisogno di autodistruzione, che è eccitante sì, ma anche doloroso e la lascia più volte in lacrime, può mantenersi entro un confine sicuro? Perché un gruppo di uomini online vuole vedere una donna soffocarsi fino a piangere? Perché la violenza può eccitarci?

Julia Murat tesse le fila di questo discorso e soprattutto di queste domande nel modo più cristallino che c’è. Non cede mai a moralismi o patetismi, i graffi sono reali e fanno male come i dubbi che portano con sé, ma fino all’ultimo non viene messa in discussione la capacità di Simone di autodeterminarsi. Il suo corpo è al centro del dibattito politico finché non lo decide lei, per ritornare a essere il campo di battaglia delle sue pulsioni ogni volta che lo desidera. Anche quando il gioco pare essersi fatto estremo, e i colpi dello sconosciuto che ha invitato a casa sua in cambio di denaro risuonano alla porta d’ingresso, Simone, più vicina che mai alla camera nel primissimo piano finale, è spaventata, poi determinata e quasi beffarda. Così, tra lacrime e sudore, lascia intendere di avere sempre avuto in mano le redini del gioco, e forse di aver giocato anche con noi.