Se si domanda agli organizzatori di Frontdoc (Aosta, 18-23 ottobre) dove abbiano cercato quest’anno di collocare la loro ipotesi di cinema, si ottiene una risposta suggestiva e programmatica: nel vortice del presente, dicono, nel centro dei mille margini che sommuovono la contemporaneità. Diretto dal 2016 da un’associazione di professionisti del settore attivi nella regione e divenuto negli anni un evento di riferimento internazionale per il cinema documentario, Frontdoc ha confermato in quest’undicesima edizione la sua vocazione sociale, esplorando con sguardi radicali e dirompenti i territori di confine del nostro immaginario, nonché le linee di frattura lungo le quali l’arte cinematografica narra il reale e rinnova il suo linguaggio.

Proiettati alla Cittadella dei Giovani – spazio aperto e polifunzionale che ben simboleggia il desiderio del festival di aggregare comunità e incentivare lo sviluppo di una consapevolezza critica tramite il confronto tra cittadinanza e associazioni locali – i trentuno film in concorso, molti dei quali in anteprima italiana, disegnano traiettorie di visione imprevedibili, libere di intersecarsi e dunque solo approssimativamente, per fortuna, assimilabili secondo tematiche, durate e categorie unitarie. Anziché sforzarsi di unire a tutti i costi le tessere di un mosaico tanto vario, conviene allora accettare l’invito all’immersione che Frontdoc ha rivolto al suo pubblico, a partire dalla scelta di affiancare al programma dei film l’allestimento di una sala espositiva, a cura di Filippo Pontiggia, dove sperimentare attraverso opere di realtà virtuale e forme ibride d’espressione le frontiere in mutamento dell’audiovisivo di oggi. Conviene, crediamo, imitare la ragazza del trailer – realizzato da Gian Luca Rossi, direttore artistico di Frontdoc insieme a Nora Demarchi – che ha introdotto le serate del festival: sprofondare, e sprofondarsi, nell’oceano che è il cinema. Salpare da porti sicuri, sciogliere gli ormeggi delle etichette e lasciarsi sorprendere, trasportare un’onda dopo l’altra, un film dopo l’altro, verso approdi non ancora immaginati.

Una novità di quest’anno è stata senz’altro la sezione dedicata ai cortometraggi di animazione, a conferma di quanto questa tecnica sia in continuo progresso, florida di contaminazioni e capace di allargare lo spettro della forma documentaria a latitudini di inventiva e originalità inusitate. Notes sur la mémoire et l’oubli di Amélie Hardy è ad esempio un acuto saggio che affronta uno dei temi ricorrenti di quest’edizione, ovvero la memoria e il nostro rapporto con essa. Oggi che nulla può essere dimenticato e la nostra memoria è fuori da noi, archiviata nelle infinite gallerie dei nostri dispositivi, l’autrice si interroga con lucido umorismo sulla natura dei ricordi, su cosa si perda a vedere tutto e sul fragile valore delle tante, forse troppe, immagini che pensiamo di ricordare e da cui, al contrario, siamo ricordati. Se quello di Hardy è un provocatorio consiglio di abbracciare la dimenticanza, cancellare le tracce fino a sparire e così ritrovarsi, altri film di questa sezione utilizzano la memoria come fondamentale strumento narrativo di indagine personale.

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Love, Dad

The Originals di Cristina Costantini e Alfie Koetter rievoca, tramite la voce di uno di questi, la spensierata seppur povera adolescenza di un gruppo di amici di Brooklyn. Il ricordo del passato si colora qui di malinconia; l’anziano protagonista guarda indietro alla sua giovinezza e la confronta con un presente ai suoi occhi stravolto e disorientante, nel quale i legami sono più labili e l’amicizia un valore impolverato. Come combattere la nostalgia per il tempo in cui eravamo felici? In Love, Dad la giovane regista ceco-vietnamita Diana Cam Van Nguyen ci prova scrivendo una veemente lettera d’amore a suo padre nonostante egli, dopo aver trascorso diversi anni in prigione, abbia abbandonato lei e sua madre per rifarsi una vita con una nuova famiglia. Confessione a cuore spalancato dalla grafia irruente e matura, Love, Dad esorcizza il trauma di ricordare scarabocchiando la memoria in sogno, il rancore in perdono. Le implicazioni identitarie che questo film mette in luce, secondo le quali nascere maschio o femmina in certe culture comporta ancora differenti gradi di dignità umana, si ritrovano esplicitate con violenza in Granny’s Sexual Life di Urska Djukic e Émilie Pigeard. I racconti di quattro donne slovene della prima metà dello scorso secolo si fondono in un unico intimo flusso, testimoniando la sopraffazione che la società patriarcale in cui sono cresciute ha attuato nei confronti dei loro corpi e del loro piacere sessuale. Vite di rinunce e addomesticamenti vengono qui condensate, grazie alla possibilità del disegno animato di accedere all’iperbole per incrementare il senso di ciò che raffigura, in una delle sequenze più potenti del festival: un grottesco esercito di soldati marcia nudo, armato solo dei propri genitali, fino alle soglie di una gigantesca vagina per poi violarla, uomo dopo uomo, al pari di una conquista di guerra.

La correlazione tra regimi di potere oppressivi e sottomissione delle donne è al centro anche di Side By Side, corto già premiato a Locarno che rilegge una delle pagine più atroci della dittatura dei Khmer Rossi in Cambogia. Il regista Polen Ly osserva il dialogo tra una nipote e i suoi nonni riguardo al matrimonio obbligato che li unì in gioventù. Costretti per la vita fianco a fianco dal regime, i due anziani indigeni riflettono sulla loro esistenza senza amore, facendo presagire nell’immobilità del quotidiano le ceneri di un impeto rimpianto e mai del tutto sopito. A proposito di regimi, oblio e memoria, segno di quanto i primi anelino alla distruzione dell’ultima e di come il dramma altrui ci appartenga, I’m Trying to Remember dell’iraniana Pegah Ahangarani medita con struggente lirismo sull’adulazione che da bambina l’autrice provava per Gholam, rivoluzionario e amico di famiglia improvvisamente scomparso durante la repressione delle rivolte in Iran negli anni ‘70, così lontana e così simile a quella che negli stessi territori si sta consumando negli ultimi mesi. Partendo dall’unica (non) traccia rimastale di quell’uomo tanto adorato, una vecchia foto in cui il suo volto è graffiato e irriconoscibile, il monologo dell’autrice si concentra sui meccanismi di rimozione collettiva e sulla sofferenza contro natura, a cui il cinema infatti si ribella, di obbligarsi alla cecità emotiva, sopprimendo il ricordo delle persone attraverso la cancellazione delle immagini che avrebbero invece in sé il sovversivo potere di eternarlo. Decostruisce il travagliato rapporto tra rappresentazione e propaganda anche We Love Life di Hana Vojackova, documentario sperimentale che ripercorre tramite materiali d’archivio – giocosi negativi delle splendide e inquietanti sequenze delle opere naziste di Leni Riefenstahl – la storia delle Spartachiadi cecoslovacche. Queste imponenti esibizioni di ginnastica volute dal regime comunista per celebrare il partito e simboleggiare al mondo la potenza del socialismo, finirono al contrario per evidenziarne le vulnerabilità, creando un ambiguo cortocircuito tra messinscena e realtà, ubbidienza all’ideologia e delirio di massa.

Due lungometraggi in concorso, Soy Libre di Laure Portier e Sam Now di Reed Harkness, ancor prima che da registi sono realizzati da una sorella e da un fratello che rischiano i loro sentimenti nel fare del cinema uno strumento di aiuto ed emancipazione per i rispettivi parenti. Nel primo Portier segue le tumultuose vicende di suo fratello Arnaud, filmandolo durante la crescita e una volta adulto inseguire la sua sete di libertà. Guai con la legge, violenze famigliari e problemi scolastici non frenano le ambizioni del ragazzo, che dalla Francia si trasferisce in Spagna e da lì in Sudamerica, dove tra lavori di fortuna, sommosse e notti in strada assapora il riscatto a lungo cercato. Questi tanti scorci di vita in una sola vengono prima guidati da Portier, che chiede al fratello di esprimere pensieri sulla sua esistenza e sulla società da cui tenta di fuggire, e poi sempre più ceduti ad Arnaud, il quale prende in mano la macchina da presa e documenta in prima persona il suo vagare senza ormai nessuna intermediazione a frapporsi tra il mondo e lo scomposto modo in cui sceglie di abitarlo. Sam Now è invece l’incredibile storia di una famiglia separata e riunita, un’odissea lunga vent’anni tra le crepe degli affetti e le increspature del bene. Quando la madre del suo fratellastro Sam sparisce nel nulla, il regista Reed Harkness decide di aiutarlo girando con lui un film amatoriale per ritrovarla. Entrambe queste opere, seppur con toni e dinamiche differenti, rivelano il documentario come imponderabile forma di autocoscienza nella quale soggetto e regista si sovrappongono, voci altrimenti inascoltate prendono parola e la trascrizione del reale si fa a tal punto sincera da sfidarlo e condizionarne il divenire.

Se Cœurs di Francois Barbier e John Leguizamo Live at Rikers di Elena Engel esplorano due ambienti cruciali, la scuola e il carcere, offrendo uno spaccato sulla sensibilità degli studenti e le speranze dei detenuti, Urban Solutions del collettivo composto da Luciana Mazeto, Vinícius Lopes, Arne Hector e Minze Tummescheit può a ragione essere considerato come film-manifesto del festival per originalità della forma e politicità del contenuto. Già premiato a Cinéma du Réel e a Frontdoc in anteprima nazionale, questo strambo documentario d’invenzione ragiona sul passato coloniale del Brasile e sui vari dispositivi, dalla proprietà privata alle telecamere di video sorveglianza, creati in nome della sicurezza dalla classe dominante per organizzare e vigilare gli spazi cittadini, così da conservare il potere ed emarginare i ceti poveri. Attraverso le fantasticherie di un portiere di condominio e uno stile ibrido, al confine tra l’invettiva e il paradosso, Urban Solutions tenta di disarticolare la frontiera delle diseguaglianze sociali che divide sfruttati e sfruttatori, scardinandone con una risata l’ingannevole e prevaricante carattere astorico. La baraonda marxista con la quale si capovolgono i rapporti di forza nell’esilarante finale è insieme il compimento di un’utopia e un sentiero per orientare le lotte del futuro, culmine di un cinema critico e militante.

I Didn’t See You There
I Didn’t See You There

Infine, tra i film più attesi del festival, vincitore al Sundance e opera spartiacque nella storia dello sguardo cinematografico, I Didn’t See You There di Reid Davenport incatena lo spettatore al punto di vista di una persona disabile, trascinandolo in un’esperienza percettiva sconcertante, priva di coordinate e radicalmente altra dalla norma. Dalla sua sedia a rotelle Davenport filma ciò che vede, gli ostacoli che incontra quando esce di casa, l’indifferenza o le indiscrete premure che riceve dai passanti. Il risultato è una disturbante meditazione sulla disabilità e la sua spettacolarizzazione, ma anche e soprattutto un’opera che possiede l’essenzialità dei grandi quadri astratti, capaci di espandere la comprensione del mondo a partire da un discrepante metodo di guardarlo. Quella del regista statunitense è una testimonianza politica e filosofica che abbatte gli stereotipi, rifugge il pietismo e ridefinisce le possibilità del mezzo, una visione al contempo umana e lunare che reclama l’importanza di essere visti oltre che vedere. Come in Anna di Julia Roesler, cortometraggio in cui una giovane donna si spoglia delle insicurezze raccontando le discriminazioni subite per il grasso del suo corpo, I Didn’t See You There rivendica la differenza del suo protagonista quale cardine di una prospettiva maggiormente inclusiva, della quale Frontdoc si è fatto alfiere, da cui osservare la realtà, ripensare il cinema e
partecipare attivamente al cambiamento di entrambi.