Un ricordo in cinque film di Mario Masini, fotografo, artista, libero pensatore passato per fortuna anche nel cinema lasciando nelle immagini una traccia di luce che ancora risplende di sentimento.

X chiama Y (1967)

Scoperto nelle fila del Centro Sperimentale da un giovanissimo Vittorio Storaro, che lo chiama come assistente operatore sul set di Pugni, pupe e marinai (film del 1961 diretto da Daniele D’Anza), Masini si affaccia alla direzione fotografica lavorando per Agosti, ma presto si inabissa nel linguaggio sotterraneo del cinema sperimentale italiano. In questo mondo fa esplodere la propria formazione artistica di pittore con due corti (Il sogno d’Anita e Immagine del tempo, ispirato da una litografia di Emilio Vedova) e un mediometraggio, questo studio sulla famiglia (dello stesso Masini) al tempo del dissenso giovanile. Libero da tutte le regole imparate, il futuro maestro mette già in pratica ciò che dirà in merito alle imposizioni della scuola: “Le regole vanno abbandonate. I giovani devono capire che il cinema non è un mito, ma un giocattolo. E con un giocattolo ci devi giocare”. 

Nostra Signora dei Turchi (1968)

Dopo aver incontrato “un genio della macchina da presa” sul set de Il barocco leccese, Carmelo Bene chiama Masini per Nostra Signora dei Turchi. É una partita a due: mentre l’intellettuale piega il cinema alle vertigini di un luminoso annullamento, il direttore della fotografia, lasciato quasi sempre da solo dall’assistente, gestisce “lì per lì” luci, macchina, fuochi e carrelli (con l’aiuto di ragazzi presi in strada), gira in Kodak positivo (per intercettare la densità degli oggetti reali) e inventa immagini che non esistevano: tra queste la “soggettiva di un morto”, un’inquadratura di Ornella Ferrari tra i fiori, fatta dondolando su una carrozzina nascosta tra assi di legno e panni neri. Nell’anno della contestazione, il film vince il Premio speciale della giuria alla 33ª edizione della Mostra del cinema di Venezia; dopo di che Masini farà altri tre film con Bene (Don Giovanni, Salomè, Un Amleto di meno), consegnando il loro armonioso incontro alla memoria della Storia del cinema. 

San Michele aveva un gallo (1972) 

La collaborazione con i fratelli Paolo e Vittorio Taviani apre un periodo più convenzionale per il direttore della fotografia ligure, che lavorando con registi differentemente industriali (Barilli, Ferreri, Di Gianni, Ferrara, Bozzetto, De Sisti) si scopre professionista versatile, capace di unire grande controllo alla più libera inventiva formale. Nel famoso film sulla dialettica tra socialismo utopistico e socialismo scientifico, la sua precisione accademica, assorbita all’epoca del Centro e mai dimenticata, risolve i problemi produttivi e sublima l’intuito per le possibilità espressive della macchina. Masini inventa l’ultima scena al tramonto, che i Taviani non volevano girare, scoraggiati dal buio. Dopo aver fotografato anche Padre Padrone (Palma d’oro a Cannes nel 1976) e pochi altri lavori tedeschi, decide però di abbandonare il cinema, a favore di un’altra vita, fatta di insegnamento, antroposofia e pedagogia steineriana: “Non si può stare a fare inquadrature per tutta la vita”. 

Teza (2008)

Tornato al cinema, diciassette anni dopo, per seguire Paolo Brunatto (vecchia conoscenza dell’underground) sul documentario Why Buddha? (incentrato su Il piccolo Buddha di Bertolucci), Masini si spinge in Africa. Lì cura la fotografia per Taze, di Hailé Gerima, uno dei più importanti registi africani di tutti i tempi. Dopo Adua (1999), è il secondo capitolo della riflessione sulle radici identitarie dell’Etiopia e sulla relazione del paese con l’Occidente. Pur adattando le fonti di luce all’identità del regista, Masini ignora ancora una volta i dettami convenzionali – quelli secondo cui dovrebbe esserci, nell’ambiente africano, un taglio netto tra luci e ombra – e usa una pellicola sempre uguale per l’interno e l’esterno. Non illumina il nero, piuttosto scolpisce fuori dal buio le forme, mentre alterna i cromatismi per immergere gli spettatori in un percorso memoriale frammentario, aperto a un’ambiguità senza morali. Gran premio della giuria al Festival di Venezia. 

Tutto parla di te (2011)

Altra (seppur diversissima) opera sui frammenti della memoria e sulle logiche dell’identità, il primo lungometraggio di finzione di Alina Marazzi è il secondo film della regista a vantare una collaborazione con Masini, che aveva già curato la color correction della fotografia di Vogliamo anche le rose – quel film incoroporava nella ricostruzione d’archivio proprio alcuni frammenti di X chiama Y, per risignificarli nell’argomentazione militante e femminista. Tutto parla di te segna l’ingresso di Marazzi nelle strutture produttive della finzione e per Masini nelle regole espressive del digitale, accolto in senso evolutivo. Compiere un salto di linguaggio a fine carriera, incontrando una regista così vicina alle sperimentazioni degli anni ‘60, deve essere stata una nuova sfida ma anche un ritorno al passato per questo libero pensatore passato per fortuna anche nel cinema. L’incontro è felice, perché il maggior controllo sulla temperatura colore apre le immagini dell’ambivalenza del sentimento materno a sfumature commoventi. Mario Masini si è spento il 13 marzo del 2023, ma la sua luce resta accesa in tutti i suoi film. Ed è ancora piena di sentimento.