Per Lisandro Alonso il cinema è sempre stato più una questione di spazio che di tempo. Già in Dos en la vereda (1995), cortometraggio girato all’età di vent’anni quando ancora studiava all’Universidad del Cine, è possibile rintracciare tanto la matrice poetica quanto il punto di vista che ne informerà l’intera filmografia. Nel corto, girato con l’aiuto dello storico collaboratore al suono Catriel Vildosola, Alonso discende lo spazio azzurrino del cielo incorniciato dagli edifici di un vicolo di Buenos Aires, per giungere alla veduta di due uomini seduti sul marciapiede. Il suono di un paio di tacchi passa dietro di noi, lo sguardo dei due ci supera e segue la figura femminile nel fuori campo. È una certa “Laurita”, una ragazza della quale uno dei due protagonisti è innamorato. Il gioco di posizionamenti ci catapulta al centro del mondo come perno dell’inquadratura, immersi nella realtà inscenata da Alonso. Non è un caso che i due siano immobili e che la macchina da presa, abbandonandoli, compia un movimento speculare a quello iniziale, facendo ritorno al ceruleo del cielo. I loro corpi, impantanati in quella ristretta porzione di spazio scandito dal movimento panoramico della cinepresa sono così privati di un moto, caricati di un’inerzia esistenziale che è protagonista del primo lungometraggio di Alonso, La Libertad (2001).

Mai come ne La Libertad il punto di vista di Alonso sarà così al di dentro del profilmico e, la vicinanza con Misael, taglialegna autoesiliatosi dalla capitale argentina, al limite più prossimo del documentario naturalistico. Lo spazio del bosco di cui Misael ha fatto roccaforte viene sondato e attraversato da uno sguardo impressionista che si confronta, nella scena capitale del film, col limite stesso delle potenzialità del mezzo cinema: l’eremita è sdraiato all’interno del proprio capanno. L’ombra avvolge l’interezza del suo corpo per lasciare che la luce ne colpisca soltanto la parte superiore del volto. Il volto, illuminato, unito allo spazio oscurato della baracca, non può che ricordare l’ambiente della sala cinematografica – che Alonso metterà al centro del film spartiacque della sua carriera, Fantasma (2006). Ma la camera, colta da un improvviso moto evasivo, si disancora dal personaggio e inizia a vagabondare accarezzando le fronde degli alberi, volteggiando “in libertà” nello spazio di un reale tale solo all’apparenza. Ed ecco che, all’incappare della macchina da presa in una staccionata, lo sguardo di Alonso si arresta bruscamente di fronte a un limite figurativo invalicabile. Per quanto la mimesi del cinema possa riprodurre la realtà, questa non potrà mai farsi carne, carne che Misael mastica sul finale guardando lo spettatore coll’arrogante consapevolezza che detiene solo chi ha piena padronanza delle regole del proprio mondo.

Da qui, dall’assunzione del limite, Alonso tenterà coi successivi lavori un progressivo scostamento da questa sua imperante centralità nel mondo. L’evoluzione del punto di vista che Alonso adotta in film come Los Muertos (2004), FantasmaLiverpool (2008) e Jauja (2014) testimonia come questi siano lenti focali con le quali osservare una realtà sempre più distante e plastica. In ciascuno di essi, coerentemente alla distanza scopica assunta dall’argentino, tutto concorre al consolidamento della posizione del regista: dalla fotografia alla scenografia, dal casting fino alla colonna sonora. Fantasma, si diceva prima, è il film che più di tutti segna un passaggio di stato nello sguardo dell’autore. Tutti gli elementi della poetica alonsiana sono messi en abyme, di rimando, sotto teca. Esemplare in tal senso è l’incipit nel quale un uomo – già protagonista di Los Muertos qui riutilizzato come feticcio metacinematografico – è appoggiato col proprio corpo contro la vetrina di quello che sembra un negozio di calzature. Le mani, a loro volta poggiate sul vetro, reggono un paio di scarpe col tacco. Lo sguardo è alla ricerca di qualcosa, forse qualcuno? Ma chi? Ma certo! La “Laurita” dei due perdigiorno che Alonso ha ritratto nel corto d’esordio. Ma Laurita non c’è più, così come non c’è più quell’immersività che finora aveva informato il rapporto dell’argentino con lo spazio.

Per la risolutezza della sua messa in scena Jauja sembrava aver segnato un punto di non ritorno nella filmografia di Alonso. Punto di non ritorno che ci si aspettava potesse essere solo che radicalizzato in un’eventuale nuovo film. Dopo che erano stati resi pubblici la sinossi e il cast di Eureka era naturale attendersi una reinvenzione di Jauja, ma Alonso scombina qualsiasi aspettativa e compie un balzo all’indietro per ricalibrare nuovamente il suo punto di vista, riattraversando la sua intera filmografia, realizzando ancora una volta un film-saggio del suo stesso cinema. Quasi un Fantasma parte seconda, una summa teorica mossa da un meccanismo che purtroppo non sembra ingranare mai. Come aveva fatto con l’1.37:1 anti-paesaggistico di Jauja, che aveva l’intento di sabotare la visibilità estetizzante delle vedute della pampa Argentina, qui Alonso abbandona ben presto le sue star (Viggo Mortensen e Chiara Mastroianni) e l’ambientazione western per lasciarsi incantare dal magnetico volto della giovane esordiente Sadie LaPointe, e dai paesaggi innevati del North Dakota. La prima parte del film, girata in Almería (set dei più famosi spaghetti-western) all’occhio dello spettatore suona più come una barzelletta, una parodia che – non si capisce bene perché – Alonso fa del suo stesso Jauja. Lo scarto comico avviene infatti quando, con uno stacco fin troppo facile, si scopre che l’inospitale Far West attraversato da un Mortensen assetato di vendetta altro non è che un vecchio film in bianco e nero trasmesso in tv. Un processo simile era toccato alle immagini del protagonista di Los Muertos, Vargas, trasmesse nella sala di proiezione di Fantasma e riviste da Vargas stesso, ora attore.

È il secondo pezzo del mosaico, quello che segue le vicende di una madre – poliziotta che presta servizio all’interno di una riserva Sioux – e di una nipote – giovane allenatrice di basket – a restituire un tentativo di smarcamento da parte di Alonso rispetto al proprio passato registico. I tempi sono dilatati come non mai ma, ancora una volta, ad assumere importanza sono gli spazi. Territori di confine, di conquista, dominati dalla violenza, tanto nel selvaggio west quanto nella riserva indiana di Standing Rock, per tornare ancora in una terza sezione ambientata nel Brasile selvatico degli anni ‘70. Quest’ulteriore passaggio è tenuto assieme dal volo di un animale, un airone (dalla CGI non troppo credibile) la cui piuma rappresenta l’oggetto totemico – in ogni film di Alonso è presente un oggetto che svolge questa funzione – che attraversa lo spazio e il tempo. In Jauja ad esempio era un soldatino giocattolo a connettere i tessuti tra passato e presente, tra un padre e una figlia – figlio e madre a loro volta – circoscritti dall’ineludibile e incestuoso vincolo della storia, costretta a ripetersi per l’eternità. Ma se nel film del 2014 il salto da un’istanza spaziale all’altra ribaltava e ricostituiva del tutto il processo di visione, non si può dire lo stesso di quanto  raccontato in Eureka. E no, non basta nemmeno la sequenza più misteriosa del film – quella in cui Sadie, nipote dell’agente di polizia, trasmigra in airone per merito del nonno sciamano – a dotare il film di quell’(inaffer)abilità magica che sconquassava le coordinate spaziali del lungo viaggio di Gunnar nel deserto argentino.

In fondo quanto cerca di dirci Alonso con questo nuovo film era già stato messo in forma in Jauja con ben altra efficacia: «il tempo non esiste, il tempo è una finzione inventata dagli esseri umani» dice il vecchio sciamano. È la prima volta che il regista mette in bocca a uno dei suoi personaggi una battuta così altisonante, una frase così smaccatamente poetica e dichiaratoria di qualcosa che in precedenza aveva restituito servendosi del mero linguaggio cinematografico. Suona, a conti fatti, un po’ come una sconfitta. Sconfitta che si presume in parte dovuta anche al peso di una tripartizione produttiva che ha allungato a ben nove anni il buco temporale creatosi dall’ultimo film del regista. Suona un po’ come una sconfitta il titolo stesso del film, Eureka. Sì, perché non sembra avvenire chissà quale epifanica scoperta linguistica, non pare nemmeno che si trovi alcuna soluzione formale che tenga insieme l’imbastitura narrativa che più volte, anzi, si imbatte in un vicolo cieco, in quella stessa staccionata che ne La Libertad dichiarava un limite. Qui quel limite così fecondo per il cinema di Alonso appare non contemplato, quasi dissimulato. Se La Libertad ha rappresentato lo scontro col limite dell’immersività, sorge dunque spontaneo pensare che Jauja possa aver svolto la funzione opposta, ponendo Alonso dinanzi a un limite estetico indissolubile rispetto alla frontalizzazione del proprio sguardo. Ma, e c’è un ma, non è la prima volta che il suo cinema prende la rincorsa. Già in Fantasma Alonso arretrò, studiò e giunse col tempo a carpire qualcosa che tuttora rimane irripetuto nel panorama del cinema contemporaneo. Del resto Eureka potrebbe essere nient’altro che la rincorsa che precede un nuovo, sorprendente, capolavoro del regista.