Nessun linguaggio meglio del comico ha saputo nel corso della storia delle arti raccontare il complesso rapporto tra individuo e mondo. Tre film presentati al 76esimo Festival de Cannes, May December di Todd Haynes, The Book of Solutions di Michel Gondry e Fallen Leaves di Aki Kaurismaki, lo ricordano – nell’eccezionalità di un luogo, il festival di cinema, sempre meno disponibile alla dinamica del riso – rappresentando attraverso cifre comiche differenti tre gradi di relazione tra individuo e realtà: dal polo della dissociazione radicale (il melodramma satirico di Haynes) al polo opposto dell’integrazione assoluta (la commedia slapstick di Gondry) passando attraverso l’intermediazione più ambigua (la tragicomica storia d’amore di Kaurismaki). In tutti e tre i casi al centro del racconto non ci sono storie che cercano o reclamano la comicità, anzi – nel film di Haynes un’attrice hollywoodiana si introduce nella quotidianità della donna che deve interpretare; in quello di Gondry un regista che non vuole rinunciare al suo final cut scappa dai produttori rifugiandosi dalla propria zia; infine, Kaurismaki mette in scena la storia di due operai che faticano a realizzare il proprio amore. Ma il comico è una forma, una chiave espressiva, e in tal senso elabora in immagine gli snodi problematici dell’identità.

Haynes, per esempio, fa coincidere il tono del suo film con la postura ironica e raffreddata di Elizabeth, l’attrice in esplorazione antropologica che esamina a distanza (l’ironia è sempre una misura analitica che sta al di fuori) la vicenda di Gracie, madre di famiglia nota ai media per essere passata in prigione dopo aver sedotto il tredicenne Joe, poi anche giovanissimo padre dei suoi figli. Lo snobismo disilluso di Elizabeth, mal travestito da affettuoso interesse, mette a quadro una situazione domestica in cui tutto sembra normale e pacifico e invece soffre di traumi sotterranei e dolori soffocati dallo scollamento cognitivo di Gracie, che pare non accorgersi della follia della propria condizione di vita. La comicità è generata proprio dal paradossale scollamento dal mondo della donna (una Julian Moore strategicamente materna e alienata allo stesso tempo), che reagisce con entusiasmo quando qualcuno le recapita un pacchetto di feci sull’uscio di casa, o piange a dirotto perché un’ordine di una torta ai mirtilli è stato annullato. L’affresco al vetriolo di una società chiusasi in un bozzolo cosmetico per anestetizzarsi dal trauma sembra concludersi con la messa in scena del disorientamento di Joe, che risulta comico come quello di un bambino mai cresciuto, incapace di gestire il proprio corpo adulto. Ma presto si capisce che questa presa di distanza, che è parziale tanto quanto lo sguardo predatorio di Elizabeth, non trova il punto e, anzi rimane spiazzata da un fraintendimento. Perché ciò che sembrava là, lontano e in controllo, invece sfugge di mano, si avvicina e coinvolge nel mondo: Elizabeth si trova implicata nel dramma e piano piano perde la linea di separazione deontologica, e poi anche l’identità, sottilmente già compromessa. Il suo tentativo di analizzare da fuori si ribalta in una codipendenza immersiva che non trova la tanto agognata verità (“spero di trovare un po’ di verità in questa vicenda” confessa ai famigliari che spia) ma solo un circuito chiuso, che la lascia inceppata dentro al mondo che voleva vivisezionare – il film si chiude comicamente su di lei che, al momento delle riprese del film, non riesce a uscire dal personaggio di Gracie.

Marc, regista alter ego di Gondry in The Book of Solutions, vive meglio l’assimilazione integrale con il mondo che lo circonda. Incapace di difendere il film che i produttori vorrebbero rubargli di mano, l’uomo fugge assieme alle sue collaboratrici, ma non riesce a finire il film: non vuole guardarlo e quindi non prende decisioni sul montaggio. Mentre tutti gli suggeriscono di uscire per un momento dalla realtà della sua immaginazione per concentrarsi e fare una scelta, Marc annulla di colpo l’ultima forma di mediazione dalla realtà (gli psicofarmaci che gli davano una certa stabilità psicoemotiva) e si abbandona alla più totale aderenza con il mondo: quella del bambino appena nato per cui tutto è un oggetto da afferrare e rilanciare. L’azione infantile di Marc, uno spasmo trasformativo che manipola tutto ciò che riesce a toccare, è resa da Gondry con la comicità slapstick, e cioè il comico del continuo sovvertimento, dell’illimitata riscrittura del reale da parte di un corpo impigliato dentro al meccanismo delle cose. Il giovane regista costruisce camion che montano film attraverso un sistema di leve, gira documentari sulle formiche, inventa un libro delle soluzioni per i problemi dell’umanità, diventa sindaco del paesino che lo ospita e apre un salone per capelli. Il suo strabismo dispersivo è solo un altro tipo di visione, un punto di vista che ritrova nella follia il senso dimenticato (Gondry lo mostra in una scena dove il regista mette a fuoco l’immagine attraverso il buco in una foglia), e il suo corpo incollato all’atmosfera non è segno di una sclerosi ma un motore d’invenzione, che nell’attrito con l’aria produce musica – come nella scena straordinaria in cui Marc chiede a un’orchestra di accordare i suoni sulla base dei suoi movimenti nello spazio. Certo, lo stato infantile non può durare. Se ne accorge lo stesso Marc, che, abbandonato da tutti, pensa sia giusto esprimere l’affetto incondizionato che prova per sua zia Denise, figura materna della sua vita, seducendola: lì lì per farlo, ecco che improvvisamente si guarda allo specchio, e si vede per la prima volta da fuori. È un passaggio fondamentale e terrorizzante di maturità (in psicanalisi sarebbe la fase dello specchio, in cui il bambino si riconosce come corpo individuale e non più assimilato), che innesca poi tre mediazioni, tre compromessi con la realtà: la depressione, la relazione con una donna, e un’improvvisa paternità.

Certo, nel finale Gondry toglie qualsiasi rassicurazione: la sana mediazione con il mondo è un punto di equilibrio, non un assunto. Sta lì in bilico, tra comico e tragico e va continuamente rilanciata. Un po’ come mostra Aki Kaurismaki in Fallen Leaves, attraverso una storia d’amore autunnale che mette in dialogo la coscienza della perdita che ammanta la realtà e la speranza indefessa per un futuro ignoto. Kaurismaki non racconta qualcosa di diverso dal suo cinema (“i veri pensatori pensano sempre un unico pensiero”), ma nella vicenda “malincomica” di Ansa e Holappa, proletari di Helsinki che si innamorano ma si perdono sempre di vista, c’è forse un altro scatto argomentativo. Non si tratta del livello di astrazione compositiva raffinato negli anni, che qui comunque appare compresso e sublimato in una durata perfetta, ma di qualcosa che riguarda il cinema, la sua storia nota e lo sguardo degli spettatori su di essa. Kaurismaki mette in scena questa storia d’amore attraverso una serie di cornici precise – come i poster di film del passato, tra cui Breve incontro di David Lean, e le informazioni di una radio sulla guerra in Ucraina – per dire allo sguardo contemporaneo ormai disilluso, disincantato e sempre collegato con la sofferenza della realtà, che la storia che sta raccontando non è che l’ennesima vicenda di un incontro fugace e fragile, una piccola storia d’amore già vista. E che per questo, malgrado tutto, è necessario crederle. Perché il cinema sopporta con spirito la contezza del suo fallimento, il suo isolamento dalla realtà, la sua impotenza (la forma qui è sempre più rarefatta), ma soprattutto la rimette sempre in gioco, scommettendo contro tutti su una vittoria. È questa scommessa con tutto da perdere che rilancia la disillusione in attesa e l’attesa in speranza; una scommessa che, prendendo Chaplin a paradigma (la comicità nobile di un perdente che cerca sempre di battere i tempi moderni), media il dolore con un riscatto sempre rinnovato e infatti trova nella fuga prospettica, con i due amanti che alla fine attraversano assieme un campo di foglie secche, la perfetta immagine di un’illusione che resta viva solo se animata ogni volta da nuovo movimento.