Curioso che sia Monster che About Dry Grasses condividano lo stesso spunto narrativo – l’accusa a un insegnante di presunti comportamenti inappropriati verso uno studente – e che in entrambi i film questo spunto sia solo un mero pretesto per mettere in scena qualcos’altro. Né a Kore’eda né a Ceylan, due dei grandi maestri in concorso al 76esimo Festival di Cannes, interessa infatti ragionare sul tema della violenza sui minori. A entrambi importa piuttosto un’altra questione, innescata ed esemplificata dal fatto sociale: l’annoso problema, nella società contemporanea della postverità ormai pienamente mediatizzata, dell’impossibilità di individuare la verità attraverso le immagini. È per questo che alla più classica delle domande – “l’insegnante è colpevole o innocente?” – i due cineasti propongono da subito un interrogativo più complesso e urgente: “Come è possibile certificare l’innocenza e la colpevolezza di qualcuno se le immagini non hanno più valore di verità?”. Ovviamente se lo pongono dal punto di vista di strenui difensori del cinema, decisi a fugare ogni dubbio sulla capacità del vecchio medium di elaborare i sottili problemi dell’immagine contemporanea: mentre tutti gli altri supporti mediatici e audiovisivi sono complici della progressiva incapacità di riconoscere il vero dal falso, l’immagine del cinema per loro è l’unico e insostituibile campo di elaborazione del problema della verità. Non tanto per il suo valore testimoniale (da tempo ridimensionato dall’ingerenza teorica del digitale) ma, all’opposto, per la sua capacità di doppiare e battere gli altri medium nell’operazione di incorporazione, riproduzione e intensificazione delle tensioni paradossali della verità. 

Il cinema per questi due registi, da tempo diventati interlocutori d’eccezione per comprendere le direzioni delle immagini contemporanee, non mette in scena la verità, semplicemente riproduce in scala osservabile il processo di opacizzazione del vero mentre è in corso. Kore’eda non a caso mostra da subito che il suo film riprodurrà la confusione delle immagini mediatizzate: fa dire al bambino protagonista che “in televisione tanto è tutto finto” e poi non istanzia l’immagine del film come un organo di verità assoluta, anzi, la configura come una macchina di indeterminazione ancora più disorientante. Allo stesso modo Ceylan detta a un personaggio secondario la certezza che “l’importante non è quello che succede ma ciò che avviene oltre il visibile”, certificando l’impossibilità di orientarsi nel mondo affidandosi alle sole immagini. Per entrambi questo disorientamento si riproduce piano piano (in una lenta stratificazione, che richiede attenzione) attraverso gli strumenti base del cinema, il tempo (soprattutto per il giapponese, che ha sempre nascosto nella tasca della durata le chiavi di comprensione e decrittazione) e lo spazio (per il regista turco il principale interesse espressivo). Se Monster, infatti, è scritto come un cruciverba, in cui non solo diversi punti di vista si incastrano attraversando una serie di punti comuni ma lo fanno partendo da punti temporali differenti e sempre più arretrati nel tempo, About Dry Grasses invece costruisce lo spazio, plasticizzato con maniacale cura grafica, come un luogo indubitabilmente “vero” per poi rivelarne di colpo l’inattendibilità.

Nel film del giapponese la struttura temporale (che sì, rassomiglia a quella di Rashomon, ma solo in parte) doppia lo stato di immobilità che caratterizza l’orizzonte audiovisivo contemporaneo, sempre chiuso in un “adesso” imperterrito da cui niente esce, evolve o progredisce. Kore’eda scrive le stesse scene con diversi punti di vista in modo che oscillino sempre intorno a un virtuale punto presente senza risolversi mai in un prima e dopo condiviso. Ma non solo: accordando l’evoluzione psicologica dei personaggi al movimento a spirale del film (una traiettoria che tende al passato toccando gli stessi punti), il regista illustra con chiarezza che l’identità (anche di genere) che tanto si pensa come qualcosa da costruire progredendo linearmente nel tempo, in realtà è qualcosa che sempre si dà già in questo presente assoluto e si capisce però solo a posteriori. Come intuiscono i bambini protagonisti, che mentre superano finalmente il proprio dramma, capiscono anche di non essere “resuscitati” come pensavano, ma di essere rimasti gli stessi, o meglio di essere diventati finalmente ciò che non sapevano di essere da sempre.

Intanto Ceylan mette in scena il presente assoluto e irrisolvibile che caratterizza l’ambiente contemporaneo attraverso la costruzione di spazi scenici tanto carichi e ricchi di informazione da risultare quasi illeggibili. Nelle sue immagini non c’è la profondità verticale della spirale, ma un’orizzontalità dispersiva che dice di una condizione di strutturale e omogenea confusione, solo occasionalmente ordinata da un’infilata prospettica. La prospettiva per questo regista d’altronde è una soluzione di senso estemporanea, un’impressione di significato, una possibilità interpretativa, il tentativo del protagonista Samet, un uomo apatico e narcisista, di forzare il mondo con il proprio punto di vista. Non è un caso che Ceylan metta in bocca al suo scocciato maestro la spiegazione dell’invenzione di Brunelleschi e che nella riproduzione delle foto scattate dal personaggio agli odiati compaesani sia aggiunta una breve animazione, un movimento a lato, uno scorcio: per buona parte della sua durata About Dry Grasses racconta della tragedia di un uomo ridicolo che a furia di voler guardare il mondo dalla propria prospettiva non riesce a vedere più nulla. Solo alla fine l’uomo capisce il punto della sua disfatta (il punto del cinema di Ceylan), e cioè che il senso del mondo non è mai fissato in senso prospettico, anzi, è il risultato del continuo e feroce annullamento reciproco delle prospettive su di esso – lo mostrano i dialoghi senza risoluzione su libertà e ideologia, ordine e caos, bene e male, e lo mostra lo spazio, campo di tensione di punti di vista dislocati e autonomi, che scrivono la propria identità e la negoziano. Il cinema risulta proprio essere questa esperienza di negoziazione aprospettica, una tecnica abitativa per sostenere le sempre più inabitabili immagini del mondo.