Capita alle volte, dopo un più o meno lungo periodo di inedia spettatoriale, di dimenticarsi quel piacere della visione che alimenta la propria cinefilia. Non solo. Capita alle volte d’assuefarsi e addirittura somatizzare una spossatezza dello sguardo che fa approcciare ciascuna proiezione più come dovere cinefilo che altro. La cinefilia d’autore, quella dura e pura, è spesso legata all’accettazione di una sofferenza autoinferta. Una sofferenza, una sopportazione, data da quelli che sono gli elementi talvolta stereotipici del cosiddetto arthouse film: i tempi dilatati, il tono serioso e impegnato, l’assenza di una linearità narrativa dalla quale farsi traghettare ecc. Capita, alle volte, durante la rabdomanzia festivaliera di imbattersi nell’(in)attesa gioia di riscoprire quel piacere della visione ormai dimenticato, non grazie a un film necessariamente straordinario o particolarmente memorabile, bensì grazie a un film che non ha paura della propria strafottenza, che non ha timore a far vanto della propria raffinata stupidità.

Al 76° Festival de Cannes quel film è The Sweet East, presentato all’interno della (da quest’anno rinominata) Quinzaine des Cinéastes, opera prima di Sean Price Williams, già direttore della fotografia di quasi 80 film tra corti e lungometraggi. A spiccare tra i produttori il nome di Alex Ross Perry, regista e attore statunitense tra le principali figure del post-mumblecore degli anni ‘10. Post-mumblecore del quale Williams riprende, oltre che i topoi narrativi del genere, anche la sprezzante vitalità infusa tanto nell’inarrestabile – e a tratti manichea – carrellata di soluzioni formali tra zoom dal sapore amatoriale, hand-drawn animation e fondali dipinti, quanto nel repentino susseguirsi di vicende che avviluppano la giovane studentessa Lillian in gita scolastica a Washington, D. C. in un tour de force tra sette islamiche appassionate di musica elettronica, ragazzini dal pene trapuntato di piercing e troupe cinematografiche trucidate con la stessa noncurante violenza di Why Don’t You Play in Hell?

Avendo curato la fotografia di due dei loro film più conosciuti, l’altro nome legato alla figura di Sean Price Williams è quello dei Safdie brothers ma, rispetto a quanto facciano i due fratelli, Williams riesce con tutt’altra spontaneità a ricreare quel crescente accumulo di confusione e caoticità che pervade i momenti più tensivi del cinema dei Safdie, soffiati a loro volta all’inarrivabile maestria di Robert Altman. L’America – Lillian – così come la sua emancipazione identitaria, sono sempre al centro del discorso. Un discorso farfugliato, quasi uno scioglilingua solipsistico messo in bocca ai propri personaggi. Primo tra tutti Lawrence, docente universitario interpretato da un mai così in parte Simon Rex, già noto al grande pubblico per Scary Movie 3, che, dopo aver dato accoglienza alla protagonista, la farà risvegliare coperta da un lenzuolo tappezzato di svastiche. La convivenza tra i due personaggi sarà soltanto la prima di una lunga serie che vedrà Lillian mercificare sé stessa per salvaguardare la propria incolumità. Un’America in vendita, pronta a scendere a compromessi con chiunque incontri sulla propria strada, con qualunque fondamentalismo, da quello islamico a quello nazista, dalla macchina divoratrice di Hollywood fino alla reclusione in un castello fiabesco la cui façade cela in realtà nient’altro che la chiesa cristiana. E a proposito di messa in vendita della propria indipendenza qualcuno lo ha già definito “The best A24 movie A24 never made”.