Il cinema contemporaneo mondiale, di qualsiasi tipo, alto e basso, grande e piccolo, non sembra stare seguendo molto il dibattito sull’alterità dello sguardo animale. Molti film che si pongono il problema, dimostrando una certa attenzione all’agenda culturale, lo trattano come un tema (una preoccupazione, uno snodo culturale, un trauma), sforzandosi di comprenderlo ed elaborarlo. E non ottengono molto: interpretando lo sguardo animale come un contenuto risolvibile e non come una forma contraria a quella con cui operano, una forma impossibile da incorporare, e quindi di crisi, reiterano immagini figlie di un antropocentrismo di ritorno sempre più cieco. Vogliono entrare dentro a quello sguardo, farne luogo attoriale, performance, e quindi ragionano secondo ordine strategico, gioco metaforico. Si prendano Tiger Stripes e Le règne animal, due film presentati al 76esimo Festival di Cannes, in due sezioni diverse (Semaine de la Critique e Un Certain Regard), da due nazioni diverse (Malesia e Francia), dirette da persone diverse (l’esordiente malese Amanda Nell Eu e  il navigato sceneggiatore francese Thomas Cailley, al secondo film) con valori produttivi diversi e una diversa visione del cinema (cinema d’autore a piccolo budget e cinema industriale di genere fantastico), ma con problemi pressoché identici nella costruzione dell’immagine dell’alterità animale, o meglio, nell’uso di questa immagine per secondi fini.

In Tiger Stripes l’animalità è pura metafora strumentale, uno specchietto per turbe intrapsichiche: una ragazzina in età puberale che scopre il proprio corpo e non si accorda più con il mondo si trasforma in una tigre e terrorizza la scuola che l’ha sorvegliata e punita, la famiglia che l’ha oppressa e le amiche che l’hanno fraintesa. In Le règne animal la questione animale è un tema centrale invece, il punto di arrivo, e la strategia metaforica sta nella costruzione delle premesse: in un mondo in cui una mutazione sta trasformando le persone in animali, chi resta umano deve scegliere come relazionarsi con i propri ex simili con il confinamento o con la coabitazione. Nel film malesiano la trasformazione felina è l’aspetto esteriore di un movimento interiore, o meglio, di un cambiamento interiore del corpo femminile  (la tempesta ormonale, il desiderio di indipendenza); nel film francese invece è figura catalizzatrice per una diversità espansa non meglio identificata, che tiene dentro tutto e tutti – e infatti nei mutanti animali confinati e perseguitati si possono riconoscere a intermittenza gli immigrati, gli adolescenti incompresi, gli outsider antigovernativi. In entrambi i casi il gioco analogico legge il rapporto umano-animale come il rapporto con una diversità simbolica esotica ma affidabile e riconoscibile (l’improvvisa estraneità psicoemotiva del corpo, l’alterità sociale in senso lato) e individua in questa affidabilità un mezzo per la costruzione dell’identità: è attraverso il confronto con un diverso in cui ci si può specchiare che per Nell Eu e Cailley l’individuo sembra formarsi. Ma la forma animale non è uno specchio, anzi, e la sua strumentalizzazione mostra la corda proprio sul terreno dello sguardo identitario dei due registi, rivelandone la debolezza.

Da un lato Tiger Stripes cerca disperatamente di far coincidere la risoluzione del trauma psicologico del suo personaggio con la costruzione di uno sguardo femminile nuovo e autonomo, che assimila senza molta coscienza varie forme mediali (l’immagine del cinema ma anche quella dei social) e vari approcci di genere (coming of age, satira di costume, horror), ma per farlo trova il collante in marche formali appartenenti a identità altrui – quelle di Apichatpong Weerastehakul e di Julia Ducurnau, che nei suoi corti ragionava sulla repellenza del corpo. Dall’altro lato Le règne animal, che vuole fortemente essere cinema industriale per il grande pubblico e guarda ai blockbuster americani per ragazzi, non ragiona per immagini di sintesi e appalta l’elaborazione dei temi correnti alle strutture formali della serialità, che pensano per linee narrative sviluppate in orizzontale, in espansione progressiva. Insomma, l’incomprensibile difformità animale sbandiera i due problemi del cinema contemporaneo che passa nei festival: l’adesione inconscia alle tendenze già premiate e l’incapacità di fondare immaginari popolari che siano basati su immagini pure.