Il linguaggio, pipistrello pendulo dai propri piedi, universo che impedisce di precipitare nel nulla reggendosi alle proprie mani allacciate…”

Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna

“La reazione è la prima parola in un mondo di azioni”. In questa frase del maestro di Edith si può racchiudere gran parte del senso di Gli oceani sono i veri continenti (presentato all’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia e ora in sala), così come il titolo stesso, a ben vedere. Ambientato in una Cuba desaturata dai colori sgargianti che spesso prestano il fianco al colonialismo culturale nell’immaginario collettivo, il film mette in relazione tre storie relative alle tre fasi principali della vita, tre storie che narrativamente sembrano non incontrarsi mai, ma che immanentemente costituiscono i tre tasselli comunicanti di un’unica trama affettiva.

Se il linguaggio è da sempre il centro della riflessione cinematografica, il senso e ciò che lo veicola sono conseguentemente parte di un tessuto che contribuisce a comporre una pretesa di dominio su ciò che viene messo in scena, non lasciando spesso spazio a quello che un’arte filosofica come il cinema può portare con sé, cioè la costruzione di una asignificatorietà che possa tracciare connessioni e creare legami tra le cose, anziché imporre loro un significato. Una dislocazione, questa, che sembra essere accolta da subito da un’opera così, anche e forse soprattutto grazie all’ambientazione: Cuba ha portato con sé per anni promesse di una visione altra della società, ponendosi come antitetica rispetto alla performatività (anche intellettuale) del mondo capitalistico, per poi infrangersi nell’impossibilità (fittizia) di evitare un cammino che imponga il proprio potere sulle cose (la decadenza non a caso nel film si fa partire dalla guerra in Angola, in cui di fatto gli epigoni della rivoluzione cubana impongono quel controllo contro cui in principio si erano posti come alternativa).

Questa delusione aleggia nelle storie di Edith e Alex, di Milagros e di Frank e Alain, che si muovono in un immobilismo inteso come tensione capovolta tra due movimenti centripeti tra due mondi. Non a caso il film gioca sempre su piani fissi che, oltre a ragionare sulla staticità delle vite dei personaggi, sono come spazi aperti, pronti a far entrare dentro si sé ogni storia che possa creare un senso di comunità, ogni affetto come rete di pluralità internazionalista vera. Gli unici minimi movimenti di macchina infatti si evidenziano su una gabbia e su lettere d’amore dove veniva promesso un ritorno mai avvenuto.

Il ribaltamento, dunque, è il perno attorno a cui ruota Gli oceani sono i veri continenti: il liquido al posto del solido, la reazione al posto della parola, l’affezione al posto del significato. In mezzo a tutto, il cinema, le vestigia di quello del passato e le rovine di quello del presente, tra Fellini, Visconti (indirettamente) e le avanguardie di Nicolás Guillén Landrián, regista escluso dall’industria cinematografica cubana e accusato del tentato assassinio di Castro (era il 1968, non a caso forse). Le rovine della sala e il racconto di un film di Landriàn trasformano il passato in invisibile, capace di essere riportato in vita da una memoria che diventa sinonimo di immaginazione, un’immaginazione che per sua stessa nascita non può che essere diversa, resistente, radicale.

Grazie a questa continua moltiplicazione di relazioni (e di “senso del non senso”) è possibile inserire un intero spettacolo di marionette all’interno della storia principale, e infine immobilizzare il tutto in una serie di fotografie, togliendo il movimento e la durata, imparando così la sottilissima lezione del primo Marker e allo stesso tempo liberandosi dei propri maestri, suggerendoci, volontariamente o no, che il cinema è una questione di film, non di autori, e dimostrandoci che una rivoluzione, prima di tutto, non può che partire dall’immagine.

Certo, questa possibilità è espressa esclusivamente come potenza meta testuale, mentre narrativamente la partenza di Edith verso l’Europa (verso la vera mancanza dell’alternativa quindi), la stasi quasi statuaria di Milagros e il sogno di Frank e Alain di diventare famosi negli Stati Uniti, non lasciano apparentemente molto spazio alla speranza. Anche se, osservando bene i grigi di questo bianco e nero, la scelta o il desiderio di restare di Alex e Frank (personaggi evidentemente speculari) inverte la rotta rispetto alla favola reazionaria del sogno migratorio, del self made man, e ragiona sul restare come unico gesto rivoluzionario antigentrificatore o, più semplicemente, poetico.

L’inversione del resto è anche questa, vedere terra dove altri vedono solo spazzatura.