Nell’umidissimo giugno bolognese si muovono senza pace poveri fantasmi. Da un cinema all’altro cercano di guardare tutto, di amare in maniera intensa ancora un’altra immagine, di avere, almeno per un momento, la sensazione di aver vinto l’oblio che, prima o poi, colpirà tutte le immagini. Rispetto ai numerosi festival cinematografici che puntellano il nostro paese, il Cinema Ritrovato è sempre stato diverso. Diverso, ovviamente, perché non tratta di opere in procinto di iniziare il percorso distributivo (se ne avranno mai uno) ma di film, alcuni più che centenari, visti e rivisti da tutti e, oggi, da nessuno. Opere che solo nel loro esistere rafforzano le parole macabre-realistiche di Cocteau quando definiva il cinema come “la macchina della morte al lavoro”. Ormai quasi tutti coloro che hanno lavorato, appassionatamente o meno, a questi “prodotti” non ci sono più, eppure rimane la traccia del loro desiderio. Ecco, in questa orgia di immagini di ogni tempo e latitudine, si rischia di precipitare nella hybris contemporanea di cui siamo tutti colpevoli; di considerare ogni immagine, ogni film, salvato e (ri)visionabile per l’eternità. In realtà, il Cinema Ritrovato è una tregua annuale per tutti coloro che combattono, ad armi impari, contro il tempo e il suo scorrere. La pellicola, infatti, è destinata comunque a degradarsi e la sicura conservazione digitale è ancora un’utopia a cui molti credono senza porsi alcuna domanda. Allora l’immagine si sfalda mentre diventa pixel e, per questo, il compito-merito della manifestazione consiste nel riportare al centro della conversazione cinefila non solo le opere come espressioni artistiche, ma anche come oggetti materiali.

Prima di affrontare un caso interessante di fruizione analogica, presente in questa edizione del festival, bisogna mettere in chiaro un assunto universale: non si può vedere tutto, così come non si può sentire tutto o leggere tutto. Nessun essere umano avrebbe il tempo materiale. Inoltre, certe opere cinematografiche non esistono fisicamente più. Non stiamo parlando di casi isolati o di film secondari, visto che agli studi mancano intere filmografie nazionali (ingenti perdite hanno riguardato il cinema muto giapponese) o sezioni fondamentali delle filmografie di autori del calibro di Lubitsch, Mizoguchi o John Ford. Il concetto si riassume attraverso una visione della storia del cinema come storia della distruzione delle immagini in movimento1. Il pensiero titanico di arrivare a guardare tutto è frutto di un’illusione nata dalla facilità odierna nel reperire copie digitali di moltissimi titoli. In effetti, attraverso gli streamer, i film hanno perso sempre più la loro identità materica, non essendoci «degli oggetti feticcio»2, ovvero le pellicole, a fungere da tramite diretto tra produttore/consumatore. Molte di queste perdite non sono direttamente collegate ad eventi traumatici o violenti ma bensì a cambiamenti all’interno del tessuto produttivo e conservativo, spesso in diretta relazione con il fruitore cinematografico. Si tratta di periodi che scandiscono ciclicamente il Novecento e che Borde definisce come ere della distruzione3. Ovviamente ogni periodo forma un caso a sé stante: dalle pellicole proiettate fino alla consunzione nei primi anni di sfruttamento commerciale, al riversamento su nastro di opere sperimentali a passo ridotto nel decennio 1985-19954 rivelatosi deleterio. Anche oggi viviamo nel bel mezzo di una di queste ere della distruzione e, nonostante tutto, la discussione non fuoriesce spesso dai circoli specializzati e dalle pubblicazioni di settore. La forza del Cinema Ritrovato si trova proprio nella capacità di far riflettere sulle questioni conservative un pubblico variegato e di ampie dimensioni, dimostrando quanto il cinema abbia ancora un valore di patrimonio comune che merita pertanto la salvaguardia.

Una finestra su questo aspetto è stata aperta all’interno della rassegna dedicata al cineasta giapponese Teinosuke Kinugasa. Questo regista – nonostante la fama di Kurutta ichipeiji (Una pagina di follia, 1926) e la palma d’oro ricevuta a Cannes per Jigokumon (La porta dell’inferno, 1953) – non ha goduto di grande fortuna in Occidente e gran parte della sua filmografia è inedita al di fuori del Giappone. Un autore, quindi, virtualmente invisibile online ma che, in realtà, gioca un ruolo determinante nella costruzione dell’industria nipponica all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Il pubblico festivaliero è ovviamente corso a queste proiezioni perseguendo quella gioia – figlia della peggiore/migliore cinefilia un po’ estatica, un po’ egoistica e sempre bulimica – di esplorare una terra ancora vergine, capace di offrire sconcertanti scoperte. Spesso un simile approccio fa vacillare il giudizio critico e il lungometraggio finisce in secondo piano rispetto all’esperienza personale della visione. Tale fibrillazione ha subito, però, una battuta d’arresto quando il pubblico si è reso conto che alcune delle copie presentate non brillavano per qualità, in particolare quella di Joyu (1947). Questa delusione sembra essere figlia di spettatori cresciuti dall’immagine digitale e abituati a una sua certa estetica e qualità di proiezione. Il lungometraggio era presentato in copia 16mm – l’unica in possesso del National Film Archive of Japan dal quale provenivano tutti i film della rassegna – mentre gran parte delle proiezioni del festival sfruttavano DCP o 35mm. L’incontro tra un pubblico non abituato e un formato particolare, desueto, certo, ma comunque ampiamente sfruttato anche nella conservazione cinematografica, è stato capace di risvegliare le coscienze. Non tutte le immagini si sono mantenute nello stesso modo: molti archivisti per salvare il più possibile sono scesi a compromessi.

Ancora una volta, il compromesso che ha portato un film girato in 35mm a essere visto a Bologna in 16mm potrebbe trovare le sue radici in una delle ere della distruzione e una spiegazione nell’oggetto stesso. Utilizzo il condizionale perché, nonostante la mia convinzione, nata dallo studio della prassi conservativa e dalla qualità di visione, ben poco si conosce della storia della copia. Il nitrato di cellulosa è il materiale che caratterizza la produzione di pellicole fino agli anni Cinquanta, presentando numerosi problemi relativi alla sua preservazione. La celluloide è nota soprattutto per la sua estrema pericolosità in quanto prende fuoco molto facilmente. Per questa ragione, viene gradualmente sostituita con il triacetato di cellulosa, più sicuro da proiettare e da archiviare. Si tratta di una rivoluzione che colpisce non solo la produzione di film ma anche la loro successiva archiviazione. Le cineteche si ritrovano ad affrontare questa “sfida conservativa” con tempi notevolmente ridotti visto che, dagli Stati Uniti all’Europa, si diffondono «leggi che limitano e poi proibiscono la proiezione e addirittura la detenzione di pellicola infiammabile»5. L’unica soluzione adoperabile consiste nel duplicare i materiali non più proiettabili in triacetato. Questa operazione, però, non poteva essere svolta per la totalità del patrimonio conservato per cui, come ricorda Stella Dagna, «Occorreva fare delle scelte […]: di fronte a una gran mole di film, a rischio di scomparsa, si scelse di duplicare [il] più possibile […] e spesso sacrificando la qualità. È frequente, per esempio, che alcuni film venissero stampati solo su 16mm, formato meno costoso ma di resa decisamente peggiore rispetto allo standard 35mm»6. Nell’anno di produzione del film in Giappone è ancora largamente adoperata la pellicola in celluloide7 e probabilmente la copia visionata a Bologna deriva da successive esigenze conservative che resero necessario un riversamento. Nonostante il passato incerto del film, la proiezione a Bologna presentava tutti i difetti visivi figli di questo processo di traslazione-distruzione: «[…] contrasto altissimo e […] stampa sfuocata che fanno sì che i dettagli siano irriconoscibili e non rendano giustizia alla perizia fotografica dei tecnici e dei registi del passato»8.

Questa copia scalcinata, “sfarinata” e privata della sua profondità è l’emblema dell’instabilità delle immagini capaci, nell’arco di un decennio, di svanire nel nulla. Un decadimento, quello delle pellicole cinematografiche, che pensavamo di aver definitivamente sconfitto abbracciando la rivoluzione digitale. Invece, come ricorda Giovanna Fossati9, oggi abbiamo meno mezzi per poter osservare un eventuale malfunzionamento di un supporto digitale rispetto agli acciacchi, immediatamente visibili (la sindrome dell’aceto ad esempio), di una bobina. Per essere sicuri di mantenere dei dati su un hard disk dobbiamo periodicamente cambiare supporto e basta una smagnetizzazione per perdere anni di immagini, ricordi, sentimenti… Una nuova era della distruzione più facilmente comunicabile poiché queste perdite sono ben inserite nel nostro quotidiano. A tutti sarà capitato, infatti, di perdere dei dati da un computer o da un telefono consapevoli che non è possibile recuperare nulla.

Nonostante la costante perdita di dati, anche importanti, sia qualcosa di comune questa attuale era della distruzione ci sembra lontana dalle nostre preoccupazioni cinematografiche. Nella sua apparente onnipotenza, il cinefilo contemporaneo pensa di poter accedere in ogni momento al patrimonio filmico universale, senza aver bisogno di nessun intermediario. La figura del curatore, quindi, pare progressivamente marginalizzata in un contesto in cui sempre più festival, per esigenze economiche e artistiche, tagliano la sezione retrospettiva. Allo stesso tempo, il fruitore specialistico crede di poter auto-organizzare, nel proprio spazio domestico, una completa programmazione cinematografica. Questa sicurezza, come quella di aver salvaguardato tutti i film prodotti, è figlia di un’illusione che il più delle volte è destinata a infrangersi nell’esperienza della visione negata che «[…] è fortemente traumatica per un pubblico formato al mito dell’open content cioè […] alla presunzione della disponibilità di ogni opera audiovisiva in forma immateriale […]»10. Questo trauma non garantisce un avvicinamento immediato degli spettatori alle istanze della conservazione o ad esperienze di visione comunitaria come quelle proposte al Cinema Ritrovato. Sarebbe impossibile cancellare in un istante decenni di fruizione che hanno portato alla completa negazione del dato materiale. La progressiva scomparsa di consuetudini spettatoriali consolidate è un dato comune di ogni era della distruzione: «Ogni evoluzione tecnologica dà per scontata la propria superiorità nei riguardi dei predecessori […] e non solo ne decreta la fine, ma ne pretende l’annientamento»11. Questi cambiamenti non hanno solo coinvolto il film come oggetto, sempre più smaterializzato nell’era digitale, ma anche tutte quelle personalità che fungono da intermediari tra opera e pubblico. I ruoli del critico, del curatore e del programmatore di rassegne hanno progressivamente perso la loro centralità all’interno del mondo cinefilo in cui cresce la presunzione del singolo di poter costruirsi da sé le proprie retrospettive. In realtà, queste figure possono e devono mettere in comunicazione gli spettatori e i testi, evidenziandone la qualità o l’interesse culturale, permettendo di percepire il lavoro sul cinema del passato come dinamico e ricco di grandi ritrovamenti, dati spesso per scontati. Solo in quest’ultima edizione del Cinema Ritrovato si sono visti materiali, dalle lezioni all’Università di Montreal di Jean-Luc Godard ai rushes per l’Otello Rai di Carmelo Bene, di cui precedentemente si ignorava l’esistenza.

Il lavoro di questi esperti sull’archivio, quindi, non deve essere percepito come puramente conservativo, ma come costante scavo nel passato delle immagini. Ciò è possibile attraverso spazi condivisi di discussione multidisciplinare che la progressiva digitalizzazione della fruizione cinematografica – indispensabile nel processo di democratizzazione della visione – ha reso sempre meno presenti. Il Cinema Ritrovato rivendica questa funzione donando una centralità assoluta al curatore, favorendo percorsi aperti a spunti differenti. Come dimenticare, da questo punto di vista, la retrospettiva su Mario Soldati di Emiliano Morreale capace di gettare, parallelamente alla riscoperta del regista, una luce significativa sul retroterra culturale di alcuni lavori di Orson Welles. Un festival, quindi, che permette e valorizza le connessioni tra studiosi e critica cinematografica, due gruppi spesso non comunicanti nella sfida condivisa alla valorizzazione del patrimonio cinematografico. L’ideale punto di arrivo di queste riflessioni mi sembra ben rappresentato dalla proiezione, all’interno di un omaggio di Emiliano Morreale a Suso Cecchi d’Amico, del film di Claudio Gora La contessa azzurra (1960); essa è stata capace di far convogliare le considerazioni sulla fruizione digitale, il piacere cinefilo della scoperta e la ricomposizione di un tassello della storia del cinema italiano. Sulla carta non ci si aspettava molto da questo lungometraggio che ha subito una travagliatissima storia produttiva, nascendo come pegno d’amore tra l’armatore Achille Lauro e l’aspirante attrice Elena Merolla. Il film cerca di sfruttare l’acting persona di Amedeo Nazzari nella costruzione melodrammatica di un doomed love. Il vero elemento di interesse, però, si trova nel contesto attorno al quale ruota la narrazione: l’industria del cinema muto italiano, un mondo poco battuto e, nel secondo Novecento, gradualmente dimenticato. Mirabile il costante utilizzo del meta-cinema che sottolinea il parallelismo tra l’amore-appagato, la realtà sul set, e l’amore-frustrato, la realtà fuori dal set. Per questa ragione, Gora frammenta il profilmico, moltiplicando i quadri aiutato dalla presenza costante di macchine da presa, palcoscenici teatrali e schermi cinematografici, arrivando a prendersi certe libertà, fino ad allora mai viste nella prassi italiana, occhieggianti all’appena fiorita Nouvelle Vague francese.

L’opera di Gora non rinasce da uno scavo dagli archivi di una qualche sconosciuta cineteca nordeuropea, ma era da anni noleggiabile per pochi spicci – addirittura caricata gratuitamente su YouTube dal distributore. Eppure, è stata per molto tempo virtualmente invisibile, travolta dal flusso apparentemente senza fine delle immagini digitali. La contessa azzurra non è diretto da un grande regista – e ancora una volta si vedono i danni e i limiti della politica degli autori – quindi per un pubblico “cinefago” perde gran parte dell’interesse. Rimane soltanto la curiosità della rarità che, però, depotenzia i meriti e l’interesse di un testo capace di avere una forza cinematografica meritevole. Solo nella grande piazza bolognese, Piazzetta Pasolini e non Piazza Grande, quest’opera è tornata a brillare di luce propria, odiata e amata come è giusto che sia. Allora è doveroso che la prassi della vita critica ritorni radicata al reale, convogliando le diverse attitudini nei confronti dell’immagine cinematografica in una figura curatoriale (ri)allacciata a una missione divulgativa (non didattica) capace di evidenziare sia la dimensione umana delle opere sia quella materiale. Ciò può avvenire anche attraverso la progressiva messa in discussione delle piattaforme digitali, nate per restare ma da non fare diventare preponderanti. Spazi di fruizione che, senza alcun controllo, hanno saputo generare frutti veramente disumani come l’incanalamento su HBO Max delle maestranze storiche in creators.

Allora, privo di anteprime mondiali o europee, di sezioni Première, di Fuori Concorso stipati di capolavori da proiettare ad orari improponibili, il Cinema Ritrovato nel suo gesto semplice/utopico di (ri)vedere il cinema pone, più di ogni altra manifestazione, quesiti fondamentali sulla nostra colpevole cinefilia, sul futuro della nostra ossessione e su quello materiale di questi strani manufatti che chiamiamo film. Domande impellenti che, come è sempre accaduto, avranno un impatto sul cinema che si andrà a raccontare, pensare, sognare, produrre e girare. Affrontando il flusso della storia in cui siamo per sempre immersi, dobbiamo essere consapevoli che il cinema non potrà mai essere ritrovato veramente. Questo pare più un bellissimo atto di fede – e di marketing – che una realtà. Tutti noi, amanti delle immagini, non possiamo essere altro che sperduti nel buio di quest’orgia di immagini senza voler essere mai ritrovati. Forse questo (ci) basta.

Per Stella e Miguel

1 Cfr. Paolo Cherchi Usai, L’ultimo spettatore. Sulla distruzione del cinema, Milano, Il Castoro, 1999.

2 Stella Dagna, Perché restaurare i film?, Pisa, Edizioni ETS, 2014: 37.

3 Cfr. Raymond Borde, “Storia delle distruzioni” in Cinema & Cinema, 1992, vol. 63.

4 Cfr. Paolo Cherchi Usai, “La cineteca di Babele” in Storia del cinema mondiale, V Teorie, strumenti e memorie, Gian Piero Brunetta (a cura di), Einaudi, Torino, 2001: 972, 976-977.

5 Cfr. Paolo Cherchi Usai, “La cineteca di Babele” in Storia del cinema mondiale, V Teorie, strumenti e memorie, Gian Piero Brunetta (a cura di), Einaudi, Torino, 2001: 975.

6 Stella Dagna, Perché restaurare i film?, Pisa, Edizioni ETS, 2014: 51.

7 Cfr. Fédération internationale des archives du film (a cura di), Film Preservation, 2004: 99.

8 Stella Dagna, Perché restaurare i film?, Pisa, Edizioni ETS, 2014: 51.

9 Cfr. Giovanna Fossati, “Dai grani al pixel: il digitale in cineteca” in Restauro, conservazione e distruzione dei film, Luisa Comencini e Matteo Pavesi (a cura di), Milano, Il Castoro, 2001.

10 Stella Dagna, Perché restaurare i film?, Pisa, Edizioni ETS, 2014: 16.

11 Paolo Cherchi Usai, “La cineteca di Babele” in Storia del cinema mondiale, V Teorie, strumenti e memorie, Gian Piero Brunetta (a cura di), Einaudi, Torino, 2001: 974.