Il mondo è al collasso, a partire dalla vita dei singoli: Aki Kaurismäki non sembra rifiutare l’assunto, ma ribadisce, potremmo dire malgrado tutto, la propria ossessione per le forme filmiche della speranza. Dove ritrovare la dignità, se non in quell’anfratto inattuale fatto di amore e cinema, entrambi approcciati non come bandiere, ma piuttosto come ipotesi, intuizioni di resistenza al sistema, vocazioni in lotta col proprio destino? Del resto è proprio la sorte, coi suoi ricami beffardi di coincidenze e imprevisti, a far incontrare, dividere in più occasioni e caparbiamente ritrovare i due sconosciuti Ansa e Holappa, protagonisti di Foglie al vento e rappresentanti perfetti di quel sottoproletariato urbano a cui il regista finlandese ci ha ormai abituati: lei bellissima e onestissima, ma sola come un cane, costantemente rigettata o beffata da posti di lavoro sottopagati, teatrini del chiodo occidentale per la sorveglianza, l’esercizio del potere, il primato fallocentrico dell’“ora ti dico io cosa devi fare”; lui, professionalmente se possibile ancora più precario, sempre più votato all’alcol come unico surrogato endorfinico a disposizione, intrappolato in quella frattura psichica che chiamiamo alienazione.

Alienata è la condizione socio-politica in cui gravano le esistenze di queste anime perse, che informa la storia del film mostrando la perdita di controllo del proprio lavoro, l’apparente sconfitta di ogni possibile idea di comunità, la sfiducia crescente nelle istituzioni e in qualsiasi dimensione di senso, presente o futura (da una radio trapela insistentemente l’escalation dell’invasione militare russa in Ucraina, ma un calendario in scena ci rivela che l’anno in corso è il 2024); al contempo, alienato è forse soprattutto l’orizzonte del linguaggio degli uomini, la loro incapacità di dirsi altro dal contesto che li forma, e che il cinema guarda caso è chiamato oggi a importunare, operazione che Kaurismäki distilla dalla sua carriera pluridecennale rivendicando la propria politique senza intaccarla della minima demagogia.

Come l’ironia nera del finlandese, la sua attitudine al disimpegno colto, la costruzione minuziosa di interni dalle memorabili palette cromatiche, il suo rigore sospeso, la sua impassibilità rock, non stiano diventando un brand anche quando molta critica (ma chiamiamola, elegantemente, comunicazione…) vorrebbe per questioni di like tutto questo suggerire, è una domanda per nulla peregrina di cui certamente Foglie al vento costituisce un’orgogliosa risposta di appena 80 minuti. La prima ragione, nota al punto da non necessitare di troppe righe, è la libertà con cui le storie di Kaurismäki diventano canovacci meccanici – un po’ come nella commedia latina, se il link non suona improprio – per dispiegare, accantonando qualsiasi storytelling contemporaneo, un’irriducibile grazia umanista attraverso i segni minuti, discreti, della messa in scena. Ci sono dettagli in Foglie al vento che si bevono intere filmografie (per non citare l’incapacità dell’algoritmo di immaginarli), come il rapporto dei personaggi con la fame, la fatica mentale del lavoro, il bisogno di denaro, il vuoto pneumatico della solitudine. Kaurismäki costruisce ancora una volta il proprio mondo, organizza le varianti lunari delle sue ascendenze bressoniane, ma lo fa con una fede assoluta nell’esperienza, nella carne dei suoi personaggi, nella qualità fenomenica degli esseri viventi che abitano o attraversano lo spazio della sua Helsinki, non importa più quanto trasfigurata.

Ciò che permette poi al film di aggiornare diversi titoli precedenti, specialmente quelli dove la dimensione del lavoro, più o meno drammaticamente, si configurava come strutturale – Ombre nel paradiso (1986), Ariel (1988), La fiammiferaia (1990) –, è certamente la capacità del film di usare il cinema per diventare una stratificata macchina desiderante. Adottando Chaplin, il cui Tempi moderni è omaggiato a più riprese, Kaurismäki progetta come mettere i bastoni fra le ruote di un sistema tanto oppressivo quanto emotivamente disarmato. Lo fa nel campo-controcampo amoroso di Ansa e Holappa, nei loro sguardi, uno e due, maschile e femminile, e nel loro scoprirsi reciproco oggetto del desiderio (e qui è Sirk ad affacciarsi), capaci come diventeranno, tra mille disavventure e a costo della stessa verosimiglianza, di tener fede a questo desiderio che si fa ossessione, rovesciando la cornice che li vuole altrimenti divisi, vale a dire morti viventi (ancora una volta in soccorso una scena del film: Ansa e Holappa che guardano al cinema I morti non muoiono di Jim Jarmusch). Non a caso è una sala cinematografica a diventare il polo di convergenza dei due protagonisti, circondati dai fantasmi (le locandine) di un cinema che ancora può, e deve, giocare la sua rivoluzione, ma prendendosi in giro – quanto fanno ridere i due cinefili che, all’uscita dallo zombie movie di Jarmusch, tentano accostamenti improbabili con Diario di un curato di campagna o Bande à part? Il pudore desiderante degli innamorati Ansa e Holappa appare certamente poetico, ma è a onor del vero politico, perché attraverso i loro errori, le loro scelte, la dignità dei loro momentanei fallimenti, Kaurismäki si propone di filtrare dall’inferno ciò che inferno non è: nel suo découpage apparentemente già scritto (nella sceneggiatura, nei suoi film precedenti, nella storia del cinema a cui da sempre guarda) nulla, nemmeno un fotogramma, appare prevedibile, inconsistente. Foglie al vento è in questo senso un film di impareggiabile densità, il contrario, potremmo dire, del nostro tempo alla deriva.