È difficile pensare a qualcosa di più chirurgico del cinema di Haneke, che proprio sul controllo degli elementi in campo ha costruito il proprio sguardo autoriale. Per questo, Happy End, alla sua affollatissima presentazione nella competizione di Cannes, ha spiazzato i critici: immaginando il solito ingranaggio perfetto, sono rimasti attoniti di fronte a un film che alterna formati e toni, raggiungendo un risultato difforme, anche se nient’affatto trascurabile.

Da un paio d’anni circolava la notizia che il regista austriaco stesse preparando un nuovo film a Calais, con grande curiosità riguardo un tema sulla bocca di tutti e apparentemente lontano dalle corde dell’autore. Non sorprende che, nonostante l’ambientazione della vicenda sia la cittadina al nord della Francia, Haneke scelga di lasciare quasi totalmente fuoricampo i migranti, facendoli comparire brevemente solo nella scena conclusiva. Ancora una volta il perno del racconto ruota attorno a una famiglia borghese, riunita in una villa dal fascino retrò: George (Jean-Louis Trintignant), il capofamiglia, arrivato agli 85 anni, pensa solo a morire; Anne (Isabelle Huppert), la primogenita, è impegnata a raddrizzare il figlio ribelle (Franz Rogowski) ma erede dell’impresa familiare; Thomas (Mathieu Kassovitz), il secondogenito, ha appena avuto un bambino da una nuova compagna quando si ritrova a dover ospitare la figlia del primo matrimonio, Eve, dopo che la madre è stata ricoverata per un’intossicazione. Come sempre in Haneke, il malessere cresce a fronte di una regia che non crea un’evoluzione ma accentua piuttosto la ripetizione di gesti e situazioni.

Happy End è l’incontro dei suoi due film premiati con la Palma d’Oro: George, dichiaratamente, è la continuazione del personaggio di Amour, con cui condivide l’aver accompagnato verso la morte la moglie malata; Eve, invece, non è altro che il bellissimo angelo sterminatore di un avvenire senza speranza, che ricorda in maniera più sottile ma altrettanto puntuale i bambini diabolici de Il nastro bianco, figurazione della futura Germania nazista. La bambina vive in simbiosi con gli strumenti tecnologici che utilizza sia per distrarsi, sia per carpire i segreti del padre, ma anche per testimoniare i propri gesti delittuosi. Per questo è l’unica a poter portare a termine il piano del nonno, filmandone una possibile morte, irretita dalla bellezza del gesto e totalmente assorbita dalla riproduzione del reale. La sua educazione, come accadeva per i piccoli dannati d’inizio secolo, sembra averla preparata non a uno sterminio ma all’estinzione ormai prossima della specie di cui si fa portatrice. Al cospetto della sua implacabile determinazione, si evidenzia la debolezza del cugino intento in uno scontro generazionale: è lui l’unico a portare l’attenzione sui migranti, accolti nel ricevimento finale; ma la sua azione politica manifesta tutta la propria inutilità. Cosa possono condividere questi stranieri con i fantasmi della borghesia occidentale? Non abbiamo che da cedere loro il nostro posto, come elegantemente suggerisce l’inquadratura finale. [Daniela Persico]


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OPERAZIONE A CUORE APERTO

Quando si dice che i grandi registi girano sempre lo stesso film non si deve prendere l’affermazione alla lettera. Significa che in opere differenti scorrono sottotraccia le stesse tensioni, una stessa corrente tematica; oppure, più sottilmente, si fa riferimento a uno stile, in grado di conferire unità a un percorso all’apparenza difforme. Meglio specificare, perché ci sono registi che girano davvero sempre lo stesso film, ostinandosi a ripetersi all’infinito con minime variazioni, prigionieri di un vicolo cieco: non fanno che ritornare perennemente dove hanno commesso il loro primo omicidio. È, con grande evidenza, il caso di The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos, film cupissimo in cui, biblicamente, si applica la legge del taglione: a una morte causata da un chirurgo disattento (si legga propenso al bicchiere) se ne esige un’altra di riparazione. Figlio di un paziente deceduto sotto i ferri, Martin (Barry Keoghan) stringe una bizzarra amicizia con il responsabile della morte del genitore (Colin Farrell) ma il loro rapporto prende una brutta piega quando il ragazzo chiede all’uomo di sacrificare un componente della propria famiglia, minacciando una perdita più ingente.

Prende avvio da questo presupposto un orrendo gioco al massacro che coinvolge tutti, dai protagonisti allo spettatore (e a volte viene da chiedersi cosa abbia partorito questo tipo di cinema capace di rimuovere qualunque forma di piacere – di racconto, di sguardo, di fruizione – per trasformarsi in pura pratica sadica), in un crescendo di atrocità che non lascia scampo a niente e nessuno. Il regista greco si misura ancora una volta con l’ambito familiare, visto come bacino di ipocrisie, terreno fertile per germi malsani che si trasmettono di padre in figlio, e lo fa servendosi di una regia alla costante ricerca di un’elegante compostezza che faccia da contrappunto alla violenza emotiva del racconto. Ma l’armamentario linguistico è preso di peso da Shining: lente zoomate accompagnate da un sonoro straniante, grandangoli che deformano interni asettici e inquadrature dall’alto che sovrastano i personaggi come lo sguardo di una divinità indifferente. Innegabile il senso di malessere prodotto dalla visione, ma non c’è niente di perturbante, niente che possa davvero inquietare nel profondo e sconfessare la sensazione che tutto si risolva in un macabro espediente ordito da un autore a corto di idee.

Ciò che di buono si trovava in Kynodontas e Alps (e pazialmente in The Lobster), infatti, è qui ridotto a un calco forzato, buono (forse) a soddisfare gli aficionados del regista e il pubblico festivaliero (che al termine della proiezione stampa, peraltro, ha fischiato). Viene da rimpiangere l’originalità delle prime opere, e uno stile che, con il salto qualitativo sul fronte produttivo, è stato sacrificato sull’altare della maniera. Se il bersaglio di Haneke è chiaro, non si può dire lo stesso di Lanthimos. E in ogni caso non basta filmare un’operazione a cuore aperto per sentire l’organo palpitare. [Alessandro Stellino]


Set del film "L'Intrusa" di Leonardo di Costanzo. Nella foto Raffaella Giordano. foto di Gianni Fiorito Questa fotografia è solo per uso editoriale, il diritto d'autore è della società cinematografica e del fotografo assegnato dalla società di produzione del film e può essere riprodotto solo da pubblicazioni in concomitanza con la promozione del film. E’ obbligatoria la menzione dell’autore- fotografo: Gianni Fiorito.

SENZA VIA DI FUGA

Quello di Di Costanzo si conferma un cinema che non contempla possibilità di evasione. Dopo L’intervallo, anche L’intrusa (presentato alla Quinzaine des Réalisateurs) ingabbia i propri personaggi in un contesto circoscritto che, prima ancora di essere geograficamente inteso, è quello dei propri pregiudizi: la prigione che ciascuno si costruisce intorno per proteggersi dagli altri anche quando intende offrire riparo. Sembra esulare da questa categoria la protagonista Giovanna (Raffaella Giordano), operatrice sociale e fondatrice del centro di accoglienza La masseria, nel quale si cerca di sottrarre i più piccoli alle logiche di sopraffazione proprie della camorra. Sua la scelta di ospitare in un casolare adiacente alla struttura la moglie di un pregiudicato ricercato e i suoi bambini, inconsapevole del fatto che la donna approfitterà della sua disponibilità proprio per nascondere il marito. Quando la polizia compie un raid per catturarlo dovrà decidere se continuare a offrire protezione alla persona che l’ha tradita o allontanarla, come vorrebbero le altre madri.

Rispetto al film precedente, L’intrusa è stilisticamente più libero, grazie anche al passaggio dalla fotografia di Luca Bigazzi a quella di Hélène Louvart, e le scene con protagonisti i bambini evidenziano la capacità di adesione al loro punto di vista da parte del regista, autore di quel piccolo gioiello documentario che è A scuola (forse, in Italia, soltanto Salvatore Mereu è altrettanto abile a lavorare con i ragazzini, a far vivere i film della tensione dei loro sguardi e dei loro corpi). Ed è un peccato, allora, che la loro presenza sia quasi sempre marginale, perché al centro della scena stanno poi le due donne, in una sorta di duello a distanza che non deflagra mai e trova nel finale una via di uscita senza spargimenti di sangue ma anche lascia inalterato lo status quo. Ancora una volta, il regista napoletano sembra voler dire che la buona volontà dei singoli serve a poco di fronte a una società che impedisce il cambiamento, che fa di tutto per neutralizzarlo, perché il senso profondo della comunità si è perduto o, quando c’è, è talmente fragile da cedere alla prima crepa. Tutto assai giusto, si vorrebbe solo che l’incedere della narrazione fosse meno programmatico, il film meno scritto. E che ci fossero ancora più ambiguità, forse persino incertezze e dubbi, nello sguardo di un regista che sa bene quanto l’imprevisto possa giovare al senso di verità di un film. [Alessandro Stellino]


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