Per molti la promessa di James Gray è sempre rimasta tale: quella di un autore premiato proprio a Venezia con il Leone d’Argento per la Miglior regia nel 1994 all’esordio con Little Odessa e mai veramente giunto alla consacrazione della maturità artistica. Il regista americano ha la sua schiera di fan e l’eclettismo della sua filmografia ne favorisce una considerazione da politique des auteurs, pur apparentemente sconfessando le rigidità di certe sue applicazioni obsolete. Il tema della famiglia e delle complesse relazioni tra fratelli, padri e figli, ricorre spesso, a volte anche solo sottotraccia, nascosto nelle costruzioni proprie del cinema di genere, sentimentale, avventuroso, criminale, fantascientifico. Sempre autore delle proprie sceneggiature, Gray è scrittore capace di far convivere epos storico e intimismo, contestualizzando i drammi personali all’interno di macrocosmi sociali che dicono dell’impossibilità di imprigionare l’umano nelle strutture predefinite del vivere comune.

Quasi come un Malick senza lo slancio verso l’assoluto, Gray rimane ancorato al suolo fino a Civiltà perduta e Ad Astra, appena presentato in concorso al Festival di Venezia. I due film potrebbero essere considerati come un dittico di grande ambizione, entrambi storie di figli alla ricerca dei sogni dei padri, uno oltre i confini del mondo, l’altro oltre quelli dello spazio. E se il film del 2014, superficialmente considerato da alcuni una versione poco riuscita di Apocalypse Now, era forse più libero nella forma e nella costruzione e si chiudeva con un finale sospeso e non riconciliante, l’ultimo è di segno opposto, con un padre finalmente ritrovato ma solo per essere nuovamente abbandonato, nella possibilità però del figlio di affrancarsi dalla colpa ereditaria e scagionare così entrambi.

L’astronauta Roy McBride, interpretato da un Brad Pitt saldo, coscienzioso e risoluto nel mettere il lavoro davanti a tutto, e l’affidabilità nel compito da svolgere come qualità prioritaria, è un uomo in grado di mantenere la concentrazione anche nei momenti di pericolo supremo, come mostrano la straordinaria sequenza iniziale con l’esplosione del satellite e l’inseguimento lunare; ma la repressione del sentimento porta un conto alto da pagare e la fantascienza moderna continua a interrogarsi sulla possibilità (o impossibilità) di recuperare i legami perduti con viaggi arditi nello spazio-tempo, tema cui Gray non offre una lettura particolarmente originale, per affidarsi a un racconto dalla forte impronta classicista, un po’ come sta facendo, pur in tutt’altro ambito, Jeff Nichols.

Cinematograficamente stupefacente, Ad Astra è il film che dimostra una volta per tutte le qualità registiche di Gray che, stando alla larga da facilonerie alla The Martian e senza bisogno di ricorrere ai virtuosismi di Gravity, pone al centro del film una dimensione di ricerca umana e il mistero della relazione, in maniera simile a quanto ha fatto Claire Denis con High Life (2018), film per certi versi speculare che rivela però quanto all’autore americano manchi ancora la capacità di tratteggiare personaggi femminili che non siano banalmente sussidiari alle gesta dell’uomo. Un versante ancora poco approfondito del suo universo, e anello debole.

Gray continua con Ad Astra la propria personale ricerca di un cinema popolare e d’invenzione ma anche intimo e raffinato, forse fuori tempo massimo. Una ricerca nella quale risuonano le parole del protagonista, perso nelle galassie stellari: “Why go on? Why keep trying?”.