Tutto inizia in una maniera semplice. Un marito descrive sua moglie. Una moglie descrive suo marito. Due punti di vista che talvolta sottolineano le dinamiche di genere (lei attenta agli altri, lui genio distratto), altre volte osano ribaltarle (lei intenta a giocare con il figlio, lui dedito alla cucina e all’ordine della casa). Un doppio ritratto grondante d’amore tra un distante Adam Driver e una sofferente Scarlett Johansson: tutto quello che c’è in una storia d’amore importante, in cui si è costruita non solo una casa insieme, ma anche cresciuto un bambino e fatta diventare grande una compagnia teatrale, di cui Charlie e Nicole sono le due anime, lui autore/regista e lei prima attrice. Eppure qualcosa è andato storto e la lista delle doti del proprio coniuge è solo il tentativo di un terapeuta per iniziare nel modo migliore la fase della separazione e del divorzio.

Parla proprio di questo l’ultimo film di Noah Baumbach, prodotto da Netflix (dove sarà disponibile dal 6 dicembre): Marriage Story, in competizione a Venezia76, non si concentra sulle motivazioni legate alla fine di una relazione, quanto sul processo che porta gradualmente a non concepirsi più come coppia, ma come esseri indipendenti. Un percorso a ostacoli, tra New York e Los Angeles, che deve superare l’imbarazzo dei genitori per la fine di un matrimonio, le (solo apparenti) indifferenze del figlioletto, i cavilli legali del tribunale e i muri che gradualmente si alzano quando la parola passa agli avvocati, alter-ego impazzito dei due coniugi (l’imbolsito ma grintoso Ray Liotta e la donna d’acciaio Laura Dern, clone di Renata, l’imprenditrice rampante di Big Little Lies). Nella giostra delle ripicche e delle sfide quotidiane, si conferma l’abilità di Baumbach nello stare in precario equilibrio tra le scene di un matrimonio di bergmaniana memoria e i toni leggeri della commedia, che esplode in farsa quando i due protagonisti lasciano spazio alla loro controparte giuridica.

A convincere nel film non è soltanto la straordinaria prova di scrittura e d’interpretazione, ma il fatto che il suo autore sia ritornato sui temi dell’opera che lo aveva fatto emergere, Il calamaro e la balena (2005), visti ora da un altro punto di vista. E non soltanto perché quella era la storia di un figlio di genitori separati e questa assume il punto di vista di un uomo che sta affrontando il divorzio (entrambi fatti legati alla biografia del regista, che qui affronta la separazione da Jennifer Jason Leigh), ma soprattutto perché il consiglio suggerito all’inizio del film dal terapeuta alla coppia (“ricordatevi per le cose positive che avete saputo scambiarvi”) sembra guidare prima di tutto Baumbach come regista. Evaporato poco a poco il cinismo dalla sua filmografia, ora resta la cocciutaggine nello svelare l’umano nella sua essenza, talvolta cieca dei bisogni dell’altro. Senza esprimere alcun giudizio, lo sguardo dell’autore accompagna i suoi protagonisti verso una liberazione (espressa dalle due straordinarie prove canore del pre-finale) dolorosa ma necessaria, prima di poter tornare a dare voce all’amore nella struggente conclusione. Ineccepibile prova di un cineasta maturo, capace di non eccedere mai perché, come il suo protagonista Charlie, ora sa che le ferite più profonde non le causa la lama di un coltello.