Per quanto in A Certain Kind of Silence la prima informazione testuale (l’assurda sincronia degli allarmi di un gruppo di macchine) sia già una chiara affermazione di distopia in atto – una sinossi e allo stesso tempo una promessa dell’avvenire di questo stato – la distopia non è l’oggetto proprio dell’analisi di Michal Hogenauer: il regista praghese è di certo interessato a questa forma di distorsione sociale, ma più alla sua decostruzione che alla sua costruzione o enunciazione a posteriori. Si concentra infatti sulla sua unità minima, la manipolazione, per descriverne la struttura e il funzionamento. Allo stesso modo in cui la manipolazione è composta da un’azione congelante – che fa presa sull’individuo – e di un’azione di criptaggio – che nasconde la sua attività –, così la forma visiva del film congela e si complica, produce chiarezza immobilizzando un corpo concettuale, e al contempo opacizza, flettendosi cripticamente.

La storia dell’esperienza di Michaela, ragazza alla pari praghese, nella famiglia assegnatele da una agenzia, è raccontata secondo questo dispiegamento: il suo inserimento nel costrutto di regole della famiglia è impostato dalla grammatica rigida del piano fisso e della composizione simmetrica; la sua iniziale ritrosia è raccontata da una soluzione oppositiva rispetto alla norma – la macchina a mano è differenza contro la normatività della regola, forma di emozionalità sciolta, come anche il character design asimmetrico; il suo conseguente adattamento è interpretato dalla progressiva scomparsa dell’asimmetria e dalla ricomposizione del piano fisso, riformulato a livello psicologico da nuove angolazioni prospettiche. A livello narrativo, prima ancora che la storia raggiunga i suoi punti di esplicazione, la forma consegna tutte le informazioni sulla natura etica degli spazi e dei personaggi attraverso questi due elementi: in questo modo il film genera suspense a un livello intuitivo – più raffinato dei meccanismi di narrazione non lineare utilizzati per implementare il mistero, il thrilling dentro alla tragedia. L’arco drammaturgico corrisponde poi al grado di esplicitazione (per l’occhio) della manipolazione. Da griglia congelante – e l’Haneke del “congelamento” è forse presente – a forma indistricabile dal supporto.

La manipolazione è prima presentata come qualcosa di cui ci si accorge, qualcosa che è fuori, estrinseco, qualcosa di confrontabile e di allontanabile – e così si comporta inizialmente il personaggio, che si allontana – e infatti è struttura formale straniante, con certe regole a cui ci si deve adattare. Poi è resa tramite la destrutturazione della forma rigida e quindi dell’adagiarsi del costrutto nel tessuto del vivere, ovvero nel momento in cui viene accettata come legge in cui è possibile (in un certo senso perverso anche confortante) integrarsi, per vari motivi. Il film lascia nell’ambiguità i motivi che spingono il soggetto ad aprirsi ai tentativi di deformazione della manipolazione, e in questo modo suggerisce un’impossibilità: l’individuo resta un ente indicibile – sarebbe una manipolazione, quindi una contraddizione, applicare una verità posticcia al soggetto finzionale. Dicibile, visibile, è invece la sinuosità della manipolazione, l’impercettibilità con cui si avvicina ai soggetti, la forma invisibile con cui si scompone e avviluppa i supporti. L’immagine di A Certain Kind of Silence coglie la grammatica di quella specifica forma parassitaria di controllo che avvolge senza essere notata e che presto si fa lo stesso corpo che l’ha ospitata: il farsi e il disfarsi visivo di quel tipo di silenzio che gocciola dai timpani bucati.