Appena un anno dopo il 1968, la primavera di Praga aveva già il suo monumentum aere perennius. Si trattava di Le affinità elettive: irripetibile, leggiadramente stratificato documentario sulla microfisica politica di quei mesi, sulle chiusure e sulle aperture a cui essa aveva dato luogo. Il suo regista, Karel Vachek, non passò la successiva normalizzazione indenne, e prima di realizzare un altro film dovette far passare più di vent’anni. Dieci li trascorse negli Stati Uniti, ma senza un briciolo della fortuna che arrise ai Forman e ai Passer.

New Hyperion or Liberty, Equality and Brotherhood (1992), marcò dunque il suo ritorno sulle scene, facendo capire da subito che la posta era, nel frattempo, aumentata di molto. I limiti della forma documentaria venivano infatti forzati da un montaggio che si avventurava in fraseggi connettivi ampi, ariosi e financo spericolati, a servizio di un’idea utopica di società sfacciatamente ambiziosa. Le opere successive non fecero che consolidare questo nuovo approccio, fino ad arrivare alle strepitose cinque ore e mezza di questo nuovo Communism and the Net, or the End of Representative Democracy.

Il casus belli è semplice: la constatazione che se al timone della sua Repubblica c’è l’odiato Andrej Babiš, per molti una specie di “Donald Trump ceco”, allora nella democrazia occidentale deve esserci per forza qualcosa che non va. Le complicazioni che ne conseguono, tuttavia, sono pressoché infinite: con un montaggio che frulla insieme materiale diaristico su pezzi di vita vissuta dal cineasta, spezzoni dai suoi film, footage di repertorio di varia provenienza (YouTube compreso), interviste, e molto altro ancora, Vachek compone un trattato di allarmante erudizione e di poliedricità a dir poco rinascimentale, che prende dentro Storia, Filosofia, Arte, Economia, Politica… insomma: tutto.

Per ricostruire con esattezza il percorso concettuale imbastito dal vulcanico autore non basterebbero mille visioni: si tratta di una forma aperta, che non si preoccupa di complicare costantemente il discorso accatastando miriadi di variazioni e di riferimenti disparati, perché tanto il rischio di intasamento viene sistematicamente e brillantemente evitato da una capacità miracolosa di “far scorrere” le informazioni con un ritmo poco meno che ipnotico.

Il punto principale, tuttavia, si riesce ad intravedere agevolmente: si tratta del caro vecchio crinale tra l’Istituzionale e l’Organico. La vera rivoluzione fu quella fallita del 1968, mentre invece la definitiva vittoria de “i russi” è proprio la rivoluzione di velluto dell’89, perché per lui “i russi” rappresentano soprattutto ogni forma di irrigidimento burocratico-amministrativo – ciò che non cessa di ripresentarsi sotto mentite spoglie, anche e soprattutto quando si traveste da “libertà”, anche e soprattutto dentro all’agonizzante capitalismo contemporaneo che ne ha bisogno in abbondanza, anche e soprattutto attraverso quelle sue subdole e recenti mutazioni che sono i Babiš di turno. Non ci vuole molto per riconoscere questo conflitto in ogni piega della nostra stessa vita quotidiana – e Vachek stesso lo riconosce nella sua, passata a combattere i “liquidi” apparatchik neoliberali che infestano le posizioni di comando della FAMU, la legendaria scuola di cinema per cui da tempo lavora.

Ecco allora che, attraverso il montaggio, è una nozione di Organico aggiornata ai tempi che Vachek si sforza di formalizzare. Come nei film precedenti, essa consiste soprattutto in una modalità di connessione delle idee, e dunque dei frammenti elaborati dal montaggio, che non è lineare, ma sferica: un’idea si collega a un’altra non come gli anelli di una catena, ma attraverso il contatto tra le infinite parti che la compongono, e le infinite parti che compongono le altre, in un reticolo mentale che farebbe impallidire qualunque world wide web. E infatti nel film il rettangolo dello schermo si curva sovente in forma di sfera – forma geometrica da cui sono ossessionati anche i dipinti del regista. Ogni capitolo viene appunto aperto da un salone in cui Vachek e la nipote girano intorno a una delle sue imponenti tele, collage deliranti in cui un’esplosione di colori sostanzia il rincorrersi brulicante di forme geometriche (sfere e derivati su tutti) e immagini mimetiche semplificate con piglio pop.

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Non un filo concettuale dunque, ma una volumetria concettuale. Ed è una volumetria non statica, ma dinamica, che esiste solo se attivata da un montaggio che faccia coincidere il parlare e il camminare. Questa, in definitiva, la forma-di-vita organica con la quale Vachek escogita la propria opposizione a “i russi”: l’indiscernibilità tra il parlare e il camminare. Tant’è che lui stesso, pienamente fiducioso del movimento trovato dal suo montaggio in vorticosa esplorazione volumetrica, non ha paura di inciampare e cadere in errore ogniqualvolta al parlare e al camminare capita di scindersi. È il caso, ad esempio, di quando si mette a pronunciare filippiche in favore di una qualche utopia di democrazia diretta attraverso il web: tutto molto bello, ma è il suo stesso film a smentirlo esibendo una connettività molto più avanzata e parossistica della tutto sommato troppo lineare connettività di internet. Per lui “iper” rimane l’assalto al cielo della Totalità dell’Iperione holderliniano – non l’ipertesto. Al contrario, quando il camminare prevale sul parlare, Vachek si infila dentro a un pallone di plastica che fluttua sulle acque di un ruscello – ma anche qui, è il suo montaggio stesso a smentirlo. Più che creare uno spazio sferico che conterrebbe il parlante/camminante, il film cerca di materializzare un movimento sia fisico che verbale, corrispondente alla sensazione di camminare parlando a braccio, in modo tale per cui ciò che sta davanti agli occhi conta meno della vichiana consapevolezza, calcificata nelle gambe e nella lingua, che la superficie percorribile è, in quanto sferica, esauribile, e dunque è come non ci si stia muovendo affatto, a prescindere da quanto si parli e quanto si cammini. Per questo, lo spettatore dopo venti minuti non capisce nulla, ma dopo quattro ore non solo è perfettamente consapevole di dove il film sta andando a parare, ma ha la sensazione di conoscere in anticipo quale imprevedibile frammento il montaggio ha in serbo per lui – e non vede comunque l’ora di arrivarci. Stringi stringi, Vachek è troppo colto per non avere una mentalità ultraclassica: virtù, felicità e libertà stanno nell’entropia del movimento, allorché si riconosce immobile.

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Il primo a ridurre il mondo a una sfera, si sa, è stato Ferdinando Magellano. Su Magellano si imperniava l’unico altro film degli ultimi anni paragonabile a questo: Balikbayan #1 Memories of Overdevelopment Redux III di Kidlat Tahimik (2015). Se per il filippino il nemico da cui emanciparsi era l’uomo bianco colonizzatore, per Vachek sono “i russi” nel senso lato in cui li intende lui. Anche per lui, invero, il metodo è squisitamente postcoloniale: l’emancipazione arriva solo appropriandosi attivamente delle armi culturali del nemico. Sotto la superficie pop dei quadri del Nostro si agitano infatti le forme dinamiche del suprematismo di Kazimir Malevich; i suoi film prolungano appunto lo sforzo di quelle tele di rinnovare la reinvenzione, cominciata dalle avanguardie di un secolo fa, del rapporto tra bidimensionalità e tridimensionalità (come curiosamente fa anche l’altro capolavoro assoluto di Rotterdam 2020: Labyrinth of Cinema). Ma l’infinità intensiva, e non rappresentativa, di quella Quarta Dimensione che il suprematismo russo rincorreva sulla scia del serioso spiritualismo degli Uspenskij diventa, in Communism and the Net, qualcosa di molto più ironico e dunque qualcosa di molto più intrinsecamente cecoslovacco: quella che lo stesso Vachek chiama una risata interiore, toccasana alchemico che rovescia in organico ogni irrigidimento istituzionale.