Brutta bestia, il giovanilismo. A cicli irregolari, la Storia ne ripropone immancabilmente le mistificazioni, e se in altre epoche ha assunto forme più nocive o più subdole, non si può certo dire che nella nostra sia assente. Meno che mai nel mondo del cinema, incorreggibilmente alla ricerca della novità anagrafica per pigre ragioni di marketing.

È dunque tanto più appropriato che sia l’International Film Festival Rotterdam, una delle non poche kermesse del circuito mondiale a concentrarsi particolarmente sulle opere prime e seconde, a ospitare The Tyger Burns, splendida raccolta di opere firmate nell’ultima dozzina di mesi da cineasti in attività almeno dal 1972 (anno di inizio dell’IFFR). È anche qui, ricordano i curatori Gerwin Tamsma e Olaf Moeller, che va cercato il presente del cinema. Del resto, dimenticarsi che il presente è perpetuamente in tensione con il passato, significa semplicemente dimenticarsi che cosa sia il cinema.

Un buon numero di lavori mostrati, non a caso, si riallaccia alle trascorse carriere dei rispettivi cineasti, molto spesso intrecciandosi alla più ampia Storia tutt’intorno: obliquamente come Tora-San, Wish You Were Here, struggente rivisitazione postuma da parte di Yoji Yamada del personaggio che seguì lungo quasi cinquanta film; direttamente come la danese Mette Knudsen, che si relaziona in The Long Road con femminismi di varie generazioni, compresa quella in cui lei, 30-40 anni fa, fu figura di spicco; o come Cecilia Mangini che rispolvera le Due scatole dimenticate con i materiali del suo viaggio in Vietnam del 1965 da cui, ahinoi, il film previsto non poté essere tratto. Più intimo With Love – Volume One 1987-1996, epifanie video-diaristiche itineranti che anziché balzare verso gli occhi dello spettatore sembrano aprirsi in profondità e invitarlo a un contatto sensorial-meditativo attraverso lo spessore del tempo, montate dinamicamente da quell’istituzione dello sperimentalismo austriaco che è Michael Pilz in modo da dribblare ogni sospetto di oziosa monumentalità e tracciare un percorso verso l’autocoscienza (New York, il Film Archive, Robert Frank… lo stesso Mekas fa brevemente capolino) e ritorno (le enigmatiche, suggestive, opache rive del Baltico). Inestricabilmente personale e politica, invece, è la riedizione di La dialectique peut-elle casser des briques? (René Viénet), leggendario detournement situazionista di una pellicola cinese di kung fu con dialoghi spassosamente marxisant a sostituire quelli originali: dopo quasi quarant’anni, questa versione bizzarramente ricolorata e rotoscopata appare un regolamento di conti verso un’era contemporanea che ha neutralizzato il detournement elevandolo a sistema, accogliendolo al centro del meccanismo, al centro cioè dell’universo mediatico stesso.

Non che la stratificazione passato-presente richiedesse necessariamente qualche riferimento personale e meta-filmografico: alcune delle più piacevoli boccate d’aria fresca sono arrivate da film di cui era palpabile un savoir faire accumulato in decenni di devozione artigianale: A cause des filles, commedia a episodi girata da Pascal Thomas sostanzialmente per dimostrare che non c’è futile barzelletta o sofisticato marivaudage meta-narrativo che egli non sappia nobilitare con felpato equilibrismo tonale; Love’s Twisting Path, chanbara di Sadao Nakajima completamente fuori dal tempo, un autentico manuale su come creare tensione e come rilasciarla, su come ricercare nitidezza visuale e come nasconderla dietro piani moltiplicati e ostacoli alla vista – e soprattutto su come e quando indulgere, nel bel mezzo del caos (quello che precedette la Restaurazione Meiji, fatale per molti samurai tra cui il protagonista), in bolle romantico-contemplative che oggi nessuno osa più.

4bbc56e9-097d-49e4-b146-904fd2066758

Sembra fare il punto sul proprio cinema e sul proprio stile anche Arturo Ripstein (El diablo entre las piernas), col suo quadretto domestico di ordinaria perversione: coppia di anziani piccoloborghesi, lui la tradisce ed è morbosamente geloso di lei, che sta al gioco e insieme se ne sottrae. I dialoghi fondono sistematicamente l’aulico e l’ordinario, il ritmo si fa lento e agevola un incedere meticolosamente analitico: su questa scia l’impianto teatrale e la soap opera si compenetrano e si rendono reciprocamente irriconoscibili, dissolvendo la distanza cinica comune a entrambi in un brulicare di dettagli scenografici troppo vividi perché lo spettatore non senta quel mondo come vicino, abbandonando così ogni facile irrisione. Il Maestro messicano gioca (cattolicamente) a erotizzare il rincorrersi perpetuo, e il perpetuo scambiarsi di posto, tra il fantasma ideale e la concretezza carnale, e attira lo spettatore dentro al gioco solo per disvelarne illuministicamente il meccanismo. Non meno ossessivamente attenta alla forma è Aos pedaços, altra esplorazione sudamericana della paranoia di coppia, febbrile psicodramma neo-espressionista in cui Ruy Guerra trasfigura in mentale lo spazio domestico estenuando le angolazioni sghembe, il bianco-e-nero ipercontrastato e gli oggetti di scena (quelle sigarette…) con la vitalità di un ragazzino. Chi la forma se la lascia sovranamente alle spalle, impiegando l’illusoria immediatezza “tascabile” del digitale per sintetizzare in un soggettino volutamente esile la propria poetica pluridecennale, sono il Werner Herzog “giapponese” di Family Romance, LLC e James Scott, che con Fragments torna a ciò per cui è più famoso: il documentario d’artista (qui Derek Boshier).

Anche quanto a lucidità politica, c’è molto da invidiare ai veterani. Costa-Gavras, per esempio, prende il best seller di Yannis Varoufakis sulla crisi greca del 2015 Adults in the Room dal lato giusto: quello di un tentativo di articolare una storia, una trasformazione nel tempo, là dove c’è solo un muro dove andare a sbattere; il suo film dunque imbocca anche dal punto di vista struttural-narrativo una serie di vicoli ciechi prima di tornare, sconsolato, al punto di partenza, e cioè alle urne, quelle che originariamente diedero a Syriza il mandato di negoziare ciò che Bruxelles non aveva alcuna intenzione di negoziare. Tutto ciò, però, non prima che sia stata recapitata ai carnefici una beffarda lezione di economia – non foss’altro che di economia narrativa: l’indefessamente didascalico cineasta ellenico rimane sempre un fuoriclasse quando si tratta di prelevare dall’onnipervasivo marasma mediatico un denso e robusto blocco di informazioni, per poi metterle in una forma leggibile, scorrevole, drammaturgicamente vivace. Non meno bene padroneggia l’economia narrativa Aparna Sen, che centra in pieno l’obiettivo di riportare sullo schermo una sobrietà di stile vicina ai fasti gloriosi della “letterarietà cinematografica” bengalese – qui addirittura misurandosi con Satyajit Ray. Ma il suo tentativo di portare La casa e il mondo ai tempi (i nostri) del nazionalismo indù di Narendra Modi non convince appieno: la terza via cercata da Ray, attraverso il suo personaggio femminile, tra elite liberal e populismo appare molto, troppo più avanzata dell’indulgente sbilanciamento di Sen verso la prima delle due fazioni. Sul versante documentario, buona parte delle quattro ore e più di Reiwa Uprising passano chiedendosi come diavolo abbia fatto Kazuo Hara a completare un instant-movie in soli quattro mesi (!) su un colorito schieramento antipolitico e soprattutto anti-Abe presentatosi alle ultime elezioni nipponiche, conservando una precisione e una lucidità, nelle riprese, non indegne di un teatro di posa, mentre il montaggio procede accumulando sfaccettature fino a suggerire pressappoco questo: il bisogno della politica di ripensare se stessa e la società di riferimento è troppo ingombrante per le troppo strette maglie del formalismo giapponese; ben vengano dunque usi eccentrici degli spazi tanto virtuali quanto reali (tipo fare campagna elettorale portandosi dietro un cavallo – e vestiti da donna), sottilmente ma ficcantemente sovversivi, che divarichino lo spazio per questo ripensamento.

Forse più ancora di questo filone politico, il più impressionante dei fils rouges che hanno innervato questo ricco programma è stato quello della trasmissione. Sembra insomma che The Tyger Burns suggerisca, o magari auspichi, l’ipotesi che le vecchie generazioni “passino” qualcosa a quelle più giovani.

2cf9779f-28b2-459e-8828-3b70f1ed2435

Da un lato, senz’altro, si tratta semplicemente di un “saper fare cinema” che i millennials avrebbero tutto l’interesse ad assorbire. The Hidden Fountain – The World of Miriam Chalfi della poetessa e cineasta d’avanguardia israeliana Raquel Chalfi è il prototipo del documentario che troppi vogliono fare e che quasi nessuno è capace di fare: un pezzo di storia personale, un ritratto della madre, scultrice affermata ma “late bloomer”, che parte da opachi home movies per costruire, anzi letteralmente scolpire, per mera virtù di organizzazione strutturale dei variegati materiali in senso brillantemente ricorsivo e con illuminata, controllatissima gradualità e ancora maggiore disciplina emotiva, un indimenticabile saggio sul rincorrersi a spirale di Vita e Forma Artistica.

D’altro canto, la trasmissione intergenerazionale è l’oggetto stesso di un buon numero di film presentati. Come un artigiano ramazza da terra i trucioli di legno lasciati ad opera compiuta, molte volte, negli ultimi anni, Ivan Cardoso ha rivisitato i materiali eccedenti della sua filmografia passata, già peraltro programmaticamente costruita sull’eccesso: ecco dunque che all’exploitation post-cormaniana con cui si è cimentato lungo decenni questa volta non solo viene abbinata la op-art del cormaniano L’uomo dagli occhi a raggi X, ma viene anche inventata un’origine mitica a posteriori allorché, nella “centrifuga” dinamicissima e ripetitiva in cui finiscono le sue immagini, Cardoso si premura di includere un goliardico home movie in cui niente meno che il divino Roger in persona, a novant’anni e passa suonati, ficca negli occhi del non-poi-tanto-più-giovane Ivan il diabolico collirio del suo capolavoro del 1963. È lì che, retrospettivamente e immaginificamente, si originò una carriera che non vuole saperne di concludersi.

Autentica leggenda vivente dell’animazione, Andrey Khrzhanovsky (The Nose, or the Conspiracy of Mavericks) fa esplodere a furia di invenzioni stilistiche un’acutissima parabola metastorica dello sceneggiatore sokuroviano Yuri Arabov, in cui Il naso di Gogol si scopre racchiudere tutto il travagliato ventesimo secolo sovietico e pre- (e post-) tale. Già, perché il racconto breve del 1834 è un apologo sul Potere che lo inquadra, correttamente, come anomalia del rapporto tra la parte e il tutto; ecco dunque che esso si trova ad anticipare in particolare quell’insuperata incarnazione del potere assoluto su cui quel secolo si è imperniato: Stalin. Tra molteplici livelli narrativi e inesauste fughe visuali godibilmente démodé, la parabola viene indirizzata a noi che stiamo su un aereo che si chiama “Dimitri Shostakovich”: nessuno come il compositore incarna infatti una condizione, quella contemporanea, in cui l’autoritarismo si è disciolto ma diventando onnipresente, e rispetto a cui siamo tutti simultaneamente conniventi e dissidenti. Ambiguità, questa, di cui è perfettamente consapevole, e in termini pressoché identici, anche il ceco Karel Vachek, autore di un opus magnum che merita un discorso a parte.

coverlg

Altro opus magnum in tutto e per tutto è l’esaltante Labyrinth of Cinema, tre speditissime ore di commovente generosità pedagogica in cui Nobuhiko Obayashi si rivolge a tre simbolici adolescenti (l’Azione, la Co(no)sc(i)enza e il Desiderio: e cos’altro esiste?) per comunicargli praticamente tutto quello che c’è da sapere sul cinema, ovvero che la sua Storia è legata a doppio filo a quella del Giappone, caso limite della modernità per eccellenza, e che ogni film è una nuova Hiroshima, ovvero un funerale del futuro che riattiva il futuro. Ciò che più conta, è che lo fa nel modo giusto: riconoscendo cioè nel cinema una macchina che crea una velocità che è la stessa cosa della morte, perché è irreversibile spazializzazione del tempo. Era chiarissimo nei primissimi anni dopo la sua invenzione, ma Obayashi riesce qui miracolosamente a riproporre il palpabile effetto ottico-nervoso delle origini con un trattamento del tempo che sarebbe riduttivo chiamare “velocità assoluta”, e in cui ogni istante subisce l’accavallarsi da parte di un altro, a cascata sullo spettatore, prima che la coscienza abbia il tempo di digerire il primo o anche solo di registrare lo spostamento operato dal successivo, sempre sul punto di spaccare la tenuta cognitiva senza tuttavia che questa venga mai meno. Sembra quasi di vedere quell’altra “velocità assoluta” che, un secolo fa, animava gli spadaccini del grande Daisuke Ito, al quale è peraltro dedicato il già citato film di Sadao Nakajima… Questa “velocità assoluta”, naturalmente, è quella del Desiderio; all’Azione e alla Co(no)sc(i)enza toccherà rallentare e passare per un melodramma che li metterà a confronto con l’illusione della morte, per giungere infine, attraverso la strada più lunga e laboriosa, a quella verità del Negativo che è la medesima destinazione che il Desiderio abita in ogni istante, e che in ogni istante ripropone. Da quando c’è il cinema, non possiamo più pensare il nostro spazio tridimensionale come distinto da quello, bidimensionale, in cui si agitano i fantasmi del nostro desiderio. Una consapevolezza che confermiamo ritualmente ogni volta che andiamo al cinema. Labyrinth of Cinema è uno straordinario viaggio iniziatico che ci ricorda questa indissolubilità tra le due e le tre dimensioni, per amore del rito, e con l’amore del rito.

Ma la più toccante, e forse più preziosa, di queste trasmissioni è quella che chiude A Frenchman di Andrei Smirnov. Dopo un viaggio in uno degli ecosistemi più paradossali che la Storia abbia conosciuto, e cioè la quotidianità del regime sovietico, dove il confine tra la regola e l’eccezione era imprevedibilmente poroso e financo rigorosamente indiscernibile, il francese del titolo riceve dal padre un foglietto con la dimostrazione matematica della coincidenza tra la realtà e la propria stessa negazione. Lo stesso Smirnov lo sa benissimo, poiché la sua regia si prende il tempo di costruire una compattezza classica che, guardata da appena più vicino, si rivela reggersi su innumerevoli eccentriche striature jazz.

Questa coincidenza tra gli opposti è il segreto della classicità cinematografica. Un segreto che la Storia del cinema, ogni tanto, fa riaffiorare in superficie, prima di riconsegnarlo puntualmente all’oblio. Una ragione in più per rimanere in ascolto di chi ne è ancora depositario – come di chi, più in generale, ha attraversato troppe età per non sapere come funziona il tempo, e quindi il cinema.