“Sarà un film da amare o da odiare”: così Orson Welles parlava del suo The Other Side of the Wind (la battuta si può ascoltare nel documentario “istituzionale” They’ll Love Me When I’m Dead di Morgan Neville). E così è stato: la ricostruzione di The Other Side of the Wind, finanziata – e, dal prossimo novembre, anche distribuita – da Netflix, non ammette mezze misure.

Da una parte coloro che, forse sedotti dal mito dell’Autore, hanno subito gridato senza esitazione al capolavoro; altri – vuoi per spirito di contrarietà, vuoi insospettiti da un clamore che sa tanto di “caso” costruito ad hoc – si sono dimostrati piuttosto freddi se non addirittura ostili. Insomma, indipendentemente dai giudizi, se c’è una cosa di cui vale la pena rallegrarsi, è che Welles riesca ancora a dividere anche un pubblico pronto a tutto come quello della Mostra. Gli era riuscito da vivo (proprio qui a Venezia si consumarono le cadute di Macbeth nel 1948 e di Otello, annunciato ma non presentato, nel 1951), e gli riesce anche post mortem, con un’opera-monstre che incominciò a girare nell’estate nel 1970 e che non riuscì mai a completare, travolto dalla cronica mancanza di finanziamenti e da complesse vicende legali. Quella che è stata presentata qui al Lido, supervisionata da Peter Bogdanovich e montata da Bob Murawski a partire da 100 ore di girato e da un rough cut di una quarantina di minuti realizzato dallo stesso Welles, è pertanto solo una delle versioni possibili del film, probabilmente molto vicina a quella che avrebbe potuto essere la versione definitiva (è sufficiente un confronto con la sceneggiatura pubblicata nel 2005 dal Festival di Locarno per rendersene conto), ma certo non il “director’s cut”.

Un’incompiutezza che ripropone questioni filologiche sempre attuali e troppo spesso trascurate quando si parla di cinema: quali sono i criteri con cui è stata condotta la ricostruzione del film? La forma-lungometraggio è la più corretta per raccogliere una tale e magmatica quantità di girato? È effettivamente possibile presentare pubblicamente un film incompiuto esattamente come si stampa l’edizione critica di un romanzo?

Il fatto che ad approntare questa versione di The Other Side of the Wind sia proprio quel Bogdanovich che nel film recita la parte di Brooks Otterlake, ovvero l’allievo prediletto destinato a spodestare John Huston/Jake Hannaford, rende ancora più pirandelliano il gioco di specchi fra realtà e finzione messo a punto da Welles con sorprendente preveggenza: un film incompiuto che ruota attorno a un film incompiuto dallo stesso titolo (The Other Side of the Wind, appunto), messo insieme (nella finzione cinematografica come nella realtà) a partire da una molteplicità di fonti filmate e registrate. Un sistema mediale onnipresente e cannibalico che ricorda fin troppo, al netto dell’assenza di smartphone, il mondo del 2018.

Infine, The Other Side of the Wind è quasi un esempio da manuale di “stile tardo”, frutto di una mente creativa che, giunta alle soglie della terza età e pungolata dall’incombere della morte, si è fatta ancora più fervida e imprevedibile che in gioventù. Questo  “kolossal sperimentale”, che dialoga con le punte più estreme del “nuovo cinema” emerso a partire dagli anni ’60 (da Antonioni a Morrisey, dalla Nouvelle Vague a Easy Rider), è anche un film dichiaratamente testamentario, il canto funebre sulla morte di una certa idea di cinema: quella della Hollywood classica e dei tough guys alla Ford, incalzati, esattamente come si vede nel film, da orde di movie freaks. Ed è solo l’ennesima ironia del destino che un film del genere sia stato portato a termine e distribuito da quella che oggi è la piattaforma on demand più vasta del panorama mediale. Da qualche parte, forse, Welles starà ridendo.