Togliamoci immediatamente dall’impiccio: scrivere di Notturno non è semplice, come del resto non devono essere stati facili i tre anni trascorsi in Medio Oriente da Gianfranco Rosi. Non è precisamente un Gran Tour ottocentesco in cui ogni tappa corrisponde a una scoperta di qualche meraviglia storica o di qualche folcloristica abilità: il territorio attraversato dal regista è un campo minato di tensioni irrisolte e l’umanità che lo abita è provata da una sofferenza indicibile. Accendere una camera e scegliere come posizionarla in un luogo simile è il principio su cui verte un progetto cinematografico e politico come Notturno, che non può prescindere dal chiedersi come si sta di fronte al dolore degli altri.

Del resto questa domanda è alla base di tanti lavori di Rosi, quasi un tarlo per l’unico regista italiano naturalmente cosmopolita (e non tale per ambizione, in chiave di mero successo), capace di trasportarci tra i cadaveri che affiorano lungo il Gange al fianco di un battelliere, di raccontare la comunità di senzatetto del deserto californiano ora tornata in voga con il Leone d’oro di Nomadland, di raccogliere l’ambigua testimonianza di un sicario messicano, fino a guardare con occhi alieni quello che sta succedendo nel nostro paese, dallo sradicamento delle periferie romane al dramma di Lampedusa. Con ogni film – ben prima che si parlasse di cinema del reale e che la critica avesse elaborato i propri criteri di analisi e giudizio al riguardo – Rosi ha saputo spingere sempre più a fondo la propria riflessione, inventandosi di volta in volta un linguaggio capace di provocare, di mobilitare lo spettatore rendendo scomoda la sua posizione e costringendolo non a imparare qualcosa ma a porsi delle domande (come il grande cinema dovrebbe sempre fare).

Con Notturno lo spiazzamento è talmente forte da provocare reazioni contrastanti: c’è chi urla all’immoralità (segno di una critica italiana che, soprattutto nei confronti del cinema del reale, sembra avere un’antiquata concezione di etica come unico strumento di riferimento) e c’è chi resta abbagliato di fronte al tentativo di spingere l’intera arte cinematografica più in là, verso una ricerca del linguaggio capace di modellare un nuovo sguardo sul mondo. Perché Gianfranco Rosi ha abbandonato i suoi personaggi? E che fine ha fatto la sua indubbia capacità di ricreare una narrazione al contempo intima e geografica? Perché ci lascia soli di fronte alla vastità – e alla magnificenza, non mi vergogno a dirlo – delle sue immagini?

Si esce dalla visione di Notturno carichi di interrogativi, ma con l’impressione che questo viaggio sensoriale nei territori di confine tra Siria, Libano, Iraq e Kurdistan rappresenti una nuova dimensione del cinema, capace di dischiuderne un nuovo aspetto, lavorando su un livello più sotterraneo – ma molto più rivoluzionario – di quanto finora questo grande autore non avesse già fatto in precedenza. In maniera evidente, Rosi ci consegna un viaggio in territori in cui il conflitto è sempre fuori scena (o ai limiti estremi dell’inquadratura – la profondità di campo mai padroneggiata così magistralmente), e in maniera più sottile ci fa esperire l’immagine di morte che a poco a poco si libera in un’altra capace di accogliere la vita.

Dato che in tanti si sono improvvisati esegeti e teorici dell’immagine, ci si domanda come mai proprio a partire da corretti modelli di analisi non si sia veramente riflettuto sullo statuto del fuori campo nel film. Certo, è fin troppo evidente che la guerra qui non sta mai in prima linea, ma allora cosa resta al centro dell’immagine? Servendosi in maniera simbolica della frontalità dello spettacolo teatrale, il regista costruisce dei “teatri di guerra” in cui la messa in scena è parte cruciale della rappresentazione. Il potentissimo incipit, in cui la marcia dei combattenti – uniti in un unico corpo e privi di singola identità – riempie il piano di un’inquadratura che tende alla saturazione senza allargarsi all’esterno, è evidentemente un’immagine densa che non rimanda a nulla fuori di sé. Altrettanto chiusa tra le mura, come tra i sipari di un teatro, è il pianto della madre nei confronti del figlio morto prigioniero, in una figurazione astratta di un utero che al posto di dare la vita può solo accogliere il dolore. Simboli di una morte che esclude la vita, come la presenza fantasmatica di un cavallino bianco che diventa il solo perno in una scena di caos quotidiano: effige, nella sua impotenza, di una pace dimenticata dall’uomo eppure sempre possibile e presente. E ancora: persino il corso d’acqua in cui il pescatore di frodo cercherà le sue piccole vittime mentre all’orizzonte appaiono i bombardamenti contiene in un solo sguardo tutto il visibile, in una continuità che preclude ogni immaginazione e ogni altrove.

Ed è proprio in questa prospettiva che Rosi costruisce un discorso cinematografico che, nel profondo lavoro di composizione delle sue immagini, punta a restituire la sensazione di chiusura provocata dalla guerra. Un fuoricampo cieco è quello di una prigione che si apre come una piaga e lascia lentamente uscire i detenuti in tuta rossa come gocce di sangue, in un montaggio che accumula movimenti ormai svuotati di senso. Sono immagini disturbarti non perché il regista prediliga l’estetica sull’etica, bensì perché attraverso la composizione dei suoi piani ci pone in una posizione d’impotenza, vittime di un potere che travalica il singolo, di un’eredità culturale che ci pone dalla parte di chi delinea le geografie altrui, di chi ha dimenticato la violenza della guerra e la può vivere solo attraverso il ritorno a un’esperienza mediata.

Come mostrano splendidamente Massimo D’Anolfi e Martina Parenti in Guerra e pace, il conflitto è un tutt’uno con la sua narrazione in diretta: e anche in Notturno le immagini degli scontri sono unicamente quelle proiettate su uno schermo, che sia il laptop delle guerrigliere curde o la sala in cui si svolgerà la rappresentazione teatrale. Immagini del presente in diretta, mentre quelle del passato significativamente non trovano occhi capaci di guardarle/interpretarle. Il combattimento sta molto di più nella pesantezza di quei carri armati che non riescono a spingersi fuori dall’inquadratura, in quelle vedette immobili incorniciate dalle fessure delle stanze dove altri riposano, nel ricambio continuo di vite dentro quel lager in cui si trasformano i territori di guerra.

Cosa resta in campo in un film che doveva essere una lunga notte perenne e che invece si apre a squarci di luce? Restano i corpi dolorosamente scossi da quanto è avvenuto, come i bambini che disegnano le razzie subite, particolarmente intensi nella disconnessione tra voce e corpo della loro testimonianza. È la prova tangibile del trauma di una guerra sotto gli occhi di tutti, eppure anche talmente subdola da restare catturata nella dimensione evanescente ma eternamente presente dei messaggi audio mandati da una figlia sequestrata alla madre.

Nella complessità del conflitto contemporaneo, sempre presente e per questo drammaticamente invisibile, Gianfranco Rosi sceglie di liberarci solo nel finale, offrendoci l’unica immagine che ci chiama in causa come spettatori: di fronte allo sguardo lanciato fuori campo del giovane cacciatore a cottimo, in cerca di un nuovo impiego per sfamare la numerosa famiglia, si formula la domanda su una possibilità di futuro. Uno sguardo che ci include: lo spettacolo è finito, la rappresentazione è data, ora spetta a noi muoverci con occhi diversi.