Tre uomini attraccano sulla misteriosa Isola delle Tartarughe e vagano per la foresta paludosa fino a perdere il senno. Dopo che uno dei tre uccide brutalmente gli altri e torna al villaggio, verrà braccato e giustiziato dalla polizia.

 Lav Diaz ritorna a Venezia dopo The Woman Who Left (Leone d’Oro 2016, da noi incresciosamente in sala solo due anni dopo) con Lahi, Hayop, letteralmente “razza, animale”, una riflessione sullo spirito bestiale che genera le azioni violente dell’uomo. Un film crudo ed essenziale, come il regista filippino ci ha abituati già da diversi anni a questa parte. Una narrazione ridotta all’osso, dove più che mai è possibile percepire la messa in scena teatrale dei suoi personaggi, enfatizzata dai lunghi dialoghi e dai loro movimenti nello spazio. Un film minore, in qualche modo, non solo per la durata esigua rispetto alle opere precedenti, ma sopratutto per la mancanza quasi totale di attimi liricamente drammatici.

 Con Lahi, Hayop Lav Diaz cerca di ritornare a una dimensione più radicale, anche se parlare di un cinema totalmente “ammaestrato” per il nostro è davvero sempre stato impossibile. Sicuramente, lo stile così connotato che nel tempo l’ha posizionato sulla cima dei più grandi autori (o artisti) cinematografici, tende a dare l’impressione di qualcosa di (molto) già visto. Chi di noi conosce la sua opera non resterà sorpreso. Ritroviamo i grandi temi, che negli altri film riusciva ad analizzare ed enfatizzare con più energia, ma che questa volta sembrano solo sorvolati, quasi che ormai sembrino appartenere in maniera indissolubile ai suoi personaggi e al mondo che desidera ritrarre: la condizione di povertà e sacrificio che gli abitanti delle zone rurali nelle Filippine sono costretti a subire, il presidio militare con cui lo stesso regista si è dovuto confrontare direttamente (prima il regime di Marcos, oggi quello non meno bellicoso di Duterte), il dramma familiare che esplode e coinvolge un micro-sistema sociale, i tratti mitici di una tradizione deturpata che cercano la loro silenziosa rivincita facendo presa sull’animo degli uomini.

 Tema, quello dei miti naturali e sanguinari, che come sempre viene proposto senza mai mostrare direttamente i suoi fantasmi, come “l’orso nero” che sostiene di aver visto lungo il fiume Andres, così da poter mantenere il suo aspetto di recondito presagio, anticipando il declino della psiche. Gli spiriti della foresta erano già presenti in A Lullaby to the Sorrowful Mystery e in Death in the Land of the Encandos, ma questa volta i  mostri sono covati nel cuore dei personaggi, da cui è davvero impossibile scappare.

A far da scenario pulsante e avvolgente della messa in scena, la foresta selvaggia che incanta e spaventa: un fitto reticolo di canne e liane, foglie secche appuntite, una lastra di piombo incisa a punta secca che azzanna con le sue forme brutali (un viaggio nella storia dei segni espressivi che Lav Diaz è sempre riuscito a tratteggiare con efficacia, partendo dai covoni di grano di Talbot fino ad approdare al segno reticolare di Hans Ruedi Giger).

A far da contraltare a questo scenario opprimente, le desolanti vite che gli esigui personaggi attraversano con il loro passaggio: come bambole di pezza, che partono svuotati e trovano un senso alla loro esistenza solo nei gesti più estremi e violenti. Non c’è speranza per nessuno, anche lo strozzino che uccide per denaro insegue fino all’ultima scena una giovane ragazza zoppa, mentre prova a fuggire. Ancora una volta non assistiamo all’omicidio: la morte è radicata nella terra e nella carne degli uomini, senza tregua ne speranza.

 Nella presentazione del film, il regista sostiene che non esistono differenze fra le persone e la scimmia Pan (a quanto pare, l’animale più prossimo alla razza umana): i nostri gesti sono accomunati da una violenza incontrollata e blasfema. Questa riflessione ci porta ad una domanda, o a un’incomprensione di fondo: davvero la nostra evoluzione ci salverà dal dominio dei nostri gesti più estremi? Davvero l’uomo sarà destinato ad amare il suo prossimo? I tempi che corrono sembrano dimostrarci il contrario.