Uomo senza troppe qualità, Sharad ne possiede semmai una in particolare: la perseveranza. Già da piccolo fa la scelta di dedicare la sua vita alla musica classica indiana, e le sarà fedele fino all’età adulta, attraversata la cui soglia il film si arresta – ma si capisce che la vita di Sharad rimarrà sugli stessi binari anche successivamente, fino alla fine, anche senza mai diventare il cantante di eccellenza che ha sempre sognato invano di essere.

Per un film incentrato sulla musica indiana, The Disciple rimane decisamente al di qua di quell’universo, delle sue sofisticazioni tecniche, delle sue implicazioni socio-metafisiche e quant’altro. Si limita a sfiorarne la superficie, facendoci ascoltare i discorsi di una delle sue massime interpreti – che però si limitano a una manciata di banalità motivazionali (del tipo: “la musica è questione di disciplina”), udite in voice over mentre Sharad percorre in motocicletta le strade di Mumbai, in discutibili ralenti.

Ma proprio in quegli inserti ricorrenti si annida il segreto del film. Lo sfondo di queste scorribande motociclistiche cambia, perché Mumbai cambia: l’India, negli anni, diventa una delle massime potenze mondiali e i grattacieli rimpiazzano i caseggiati fatiscenti. Allo stesso tempo, niente cambia davvero. La vita di Sharad ruba la scena alla musica e diventa presto il centro del film – ma i suoi eventi, anche quelli importanti come il matrimonio, la nascita della figlia o il lavoro come insegnante, scivolano via con indifferenza. Si rimpiccioliscono i cellulari e gli schermi, crescono i baffi e la pancia, muoiono i maestri, ma tutto sembra piccolo al cospetto della musica, ossessione di una vita.

È all’ombra del mito della musica classica, che scorre senza scossoni la vita di Sharad. Al punto che un giornalista, portavoce di quella nemica acerrima del Mito che è la Storia, viene addirittura aggredito fisicamente dall’altrimenti assai mite discepolo. Sotto a quell’ombra, la devota mediocrità di Sharad si trasfigura in qualcosa di molto simile all’eternità: l’indifferenza al tempo.

Ed è qui che il film, brillantemente, riaggancia la musica. Il successo non arriderà mai a Sharad, ma il grigiore della sua vita arriva a toccare, senza misticismi, ciò che il quotidiano ha di inscalfibile, la sua continuità dura come la roccia – arrivando per altra via a quella continuità senza tempo a cui la sua musica arriva esasperando le frammentazioni ritmiche. Confusamente ma in modo affascinante, con la sua regia Chaitanya Tamhane sembra a propria volta avvicinarsi a questa temporalità senza tempo, con una stranissima grammatica visuale che si allontana dall’indifferenziato dei campi lunghi solo con riluttanza, e con ancora più riluttanza imprime accelerazioni a un tracciato narrativo che rimane ondivago e disinvoltamente frammentario.

Fin troppo disinvolta, in questo senso, era la struttura del precedente Court, esordio di Tamhane presentato sempre a Venezia qualche anno fa. Con questo The Disciple, è lecito sospettare che il giovane regista indiano abbia raggiunto un dominio più pieno e consapevole delle proprie potenzialità estetiche, e dei modi in cui queste possano coerentemente compenetrarsi con la materia dei propri film.