«Che chiarezza di visione ci procura l’ordine con cui trattiamo gli affari! Esso ci consente di dominare in ogni momento l’insieme, senza pericolo che i particolari si confondano. Quali vantaggi procura a un commerciante la partita doppia! È una delle più belle invenzioni dello spirito umano, e ogni buon padrone di casa dovrebbe introdurla nella sua amministrazione».

Molti studiosi (ad esempio, Franco Moretti) hanno commentato questo passaggio del Wilhelm Meister di Goethe come rivelatore di ciò che di lì a poco e per tutto il diciannovesimo secolo sarà il romanzo realista in Europa: contabilità ossessiva, razionale e lineare, del tempo prosaico della vita di tutti i giorni.

Perfettamente in linea con questo approccio, Dyer e Finney, contadini dell’America rurale di metà ottocento, vedono ogni dettaglio della loro vita come una voce di un registro contabile – incluse le rispettive mogli Abigail e Tallie, nulla più che ingranaggi nella macchina della sopravvivenza quotidiana, da far funzionare diligentemente a ogni costo. L’America è nata così: con uno sbucciamele meccanico, con la tecnologizzazione e la burocratizzazione della lotta per la sopravvivenza, diretta emanazione del desiderio ossessivo maschile, fondato sul terrore della natura, e della cui medaglia Dyer e Finney sono le due diverse facce.

Abigail e Tallie, però, si innamorano l’una dell’altra, e scoprendo una dimensione erotica che apre loro letteralmente un altro mondo, cominciano a divergere dai loro doveri quotidiani. Ma laddove il pessimo film indie/mainstream che The World to Come grazie al cielo non è ci avrebbe offerto una spettacolarizzazione melodrammatica del conflitto tra i generi, con tanto di condanna pret-à-porter del patriarcato eccetera eccetera, la Fastvold si attacca all’assai più sfumato punto di vista soggettivo di Abigail, rispetto al quale non c’è conflitto tra l’amore per il marito Dyer e quello per Tallie: l’uno, per quanto rapidamente destinato ad avvizzire, rimane possibile e in qualche modo necessario nella misura cui è il soggetto maschile a venire responsabilmente a capo del proprio desiderio ossessivo (come Finney invece non farà mai, spaventato e messo sulla difensiva dalla non meno virile Tallie), mentre l’altro è l’erotizzazione della perdita della propria immagine allo specchio, che si sa perpetua e destinata a reiterarsi indefinitamente dal momento stesso in cui, con la morte della figlia di Abigail e Dyer con cui si apre il film, appare per la prima volta il suo primo potente segno.

Giusto dunque affidare al diario scritto in prima persona da Abigail, la cui voice over ci guida lungo tutto il film, il tentativo di scrivere (per interposta short story di Jim Shepard da cui è tratto) il romanzo ottocentesco al femminile che l’America non ha mai avuto, certo non prima dei modernismi e dei virginiawoolfismi del novecento. Romanzo il cui ondivago diarismo estrinseca anche formalmente la soggettività femminile senza alcun bisogno di birignao pseudo-modernisti o pseudo-woolfiani, e che culmina quando la contabilità delle opere e dei giorni salta definitivamente: quando cioè, piangendo il cadavere di Tallie, Abigail immagina un compimento fisico dell’amore con lei che mai ci fu, mentre i cartelli che assegnano alle immagini giorni, mesi ed anni cominciano letteralmente ad andare in tilt, sfogliandosi all’impazzata sullo schermo sotto i nostri occhi.

Tutto il film, infatti, esalta un amore lesbico che non ha avuto bisogno di compiersi affinché potesse essere percepito come presente sempre e dappertutto, e che viene tradotto per immagini con una tenerezza sensuale e non sessuale (il che non significa ovviamente anti-sessuale), resa possibile e concreta da un uso miracoloso del 16mm, delle location, degli attori, e delle risorse della mise en scène più in generale. È dunque soprattutto la tessitura materiale del film ad assicurare il valore dell’operazione, e ad impressionare in molti momenti: la gestione registica del pranzo a quattro, lo squarcio di pura fascinazione figurativa della tempesta di neve, il modo sottile in cui la macchina da presa relega sempre Dyer in una posizione marginale all’interno della propria stessa casa e in relazione alla moglie, o ancora il modo con cui una semplice inquadratura di una casa in fiamme, presa dalla superficie delle acque di un ruscello, racconta quattro-cinque storie contemporaneamente senza soffermarsi su nessuna…

Gli esempi potrebbero continuare a lungo. Grazie ad essi, e più in generale grazie alla cura amorevole ricevuta dal corpo non tanto dell’oggetto del desiderio (Tallie), ma del film nel suo complesso, il rischio di eccessiva astrazione e programmaticità di un’operazione così ineccepibilmente precisa e consapevole, rischio che in passato ha fiaccato più di un benintenzionato (tipo Todd Haynes), viene spazzato via come la primavera si libera della neve.


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