Diary (1973-1983) di David Perlov (1930-2003) nasce da una forte presa di posizione, da un’intima necessità, dalla convinzione che il Cinema sia qualcosa di più che un semplice intrattenimento, ma un impulso umano ed esistenziale. In questi giorni la riflessione del regista israeliano suona potente e attuale nel ricordarci dell’importanza personale e collettiva della pratica artistica, nonché della sua diffusione. Letteratura, arte, fotografia, danza, musica e architetture: Perlov prende nota della vita quotidiana ed emerge, inconsapevolmente, la cultura in tutte le sue forme, imprescindibile tassello da salvaguardare.

Il film è una delle opere principali di questa edizione di Archivio Aperto (i sei episodi sono visibili gratuitamente sul portale di MyMovies fino al 7 novembre), la rassegna annuale di Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia, che anche in questa tredicesima tappa approfondisce la riflessione sulla forma diaristica, dopo gli omaggi a Jonas Mekas e Boris Lehman dello scorso anno.

Titolo monumentale del cinema sperimentale israeliano, Diary si sviluppa in un arco temporale di dieci anni, a partire dalla Guerra del Kippur (1973) per poi attraversare la Francia, la Polonia, il Portogallo, il Sud America. L’opera, che per modalità di fruizione ricorda una odierna serie tv, fu commissionata (e finanziata) dall’emittente televisiva inglese Channel 4 con l’intenzione di trasmetterla sui propri canali in sei episodi da 50 minuti l’uno. Basculante ininterrottamente tra il dentro – la casa, la famiglia, l’Io –  e il fuori – le strade, la politica, il mondo – , tra l’intimo e il collettivo, tra la vita privata e la Storia: Perlov racconta un decennio complesso della società israeliana attraverso le persone che popolano la sua vita, a partire dalla moglie Mira e dalle figlie Yael e Naomi, in un «testo filmico profondamente democratico»[1] poiché chiunque può ritrovarsi in esso, percorrendolo attraverso percorsi differente.

NOT A DIARY

«I am making a home movie? A diary?»: nonostante venga inserito comunemente nel filone del cine-diario, sono diversi i generi e le forme con le quali Diary confina e arriva ad intrecciarsi per spingersi oltre. È un ritratto, un documentario, un romanzo – la prima immagine del film è un testo -, una partitura. Il suo carattere ibrido consegna un’opera che è multidirezionale, multitemporale (il tempo interiore differisce da quello esterno) ma anche multilinguistica (inglese, portoghese ed ebraico). Il paragone con Mekas, padre per antonomasia del genere e a lui contemporaneo, sorge immediato. Gli intimi racconti di viaggio (e dell’esilio) dei due si muovono tuttavia in sensi opposti: se all’interno delle reminiscenze lituane il quotidiano fa irruzione senza filtro, sospinto da istintiva forza espressiva e dal filmare tradotto come incontrollabile impulso, in Perlov la realtà ha sagome e contorni precisi, equilibrati (più vicina ai journal filmé di Joseph Morder).

L’atto filmico ha le sue regole, frutto di un lungo e calibrato processo. Il film è stato girato inizialmente senza commento extradiegetico, alla pari di un film muto: la narrazione è stata aggiunta solo nella lunga e anch’essa minuziosa fase di montaggio (ne è massimo esempio l’episodio Goya: Il più grande reporter di guerra). Non c’è spontaneità in Diary in quanto il tutto è costruito per dar vita a un poema, un’opera d’arte perfetta nella forma e indipendente da ogni volere esterno o produttivo: le soluzioni tecniche ed espressive adottate sono quelle di un professionista del cinema (Perlov ha avuto una formazione accademica ed era già un affermato documentarista) che ora si serve delle regole imposte dall’industria cinematografica per creare quel tipo di opera che l’industria stessa rigetta («Quello che vogliono sono film di cui nessuno ha bisogno»). Così il ritorno di Perlov in Brasile non è dato da momenti scatenanti ma appare piuttosto come una tappa prescritta, un appunto nel calendario: non c’è melensa nostalgia e il passato viene esposto attraverso una umana razionalità; non parla mai la sua lingua natale – evocata invece dalla musica – simbolo di uno sradicamento che ormai ha raggiunto il compimento. Quello di Perlov è piuttosto il giornale di bordo di un osservatore, di un curioso esploratore: «Meno capisco le lingue attorno a me, più mi sento a casa».

CINE-OCCHIO

«Comincio a padroneggiare la cinepresa, provo una performance tecnica, ruoto su me stesso finché ho le vertigini»: all’interno di Diary il regista instaura, per la prima volta, un nuovo rapporto con la sua 16mm, finalmente libero, autonomo, privilegiato sperimentatore, incurante del risultato finale, quasi divertito. La cinepresa è viva e vibrante, in linea con le palpitazioni del regista, fino a divenire nei capitoli finali parte integrante ed estensione del suo corpo. Diary si apre appunto con una decisa e forte presa di posizione politica, nonché declamata opposizione al cinema dominante: «Maggio 1973. Compro una cinepresa. Voglio filmare da solo e per me stesso. Il cinema professionale non mi attrae più. Cerco qualcosa d’altro. Voglio avvicinarmi al quotidiano. Soprattutto, nell’anonimato. Ci vuol tempo per imparare a farlo». Le modalità con cui utilizza la cinepresa cambiano, si evolvono; le descrive, le racconta, sembra quasi che sia lei il destinatario della narrazione. Essa diviene l’arma con la quale condurre la propria personale battaglia culturale: «Decido di cambiare modo di filmare. Di filmare solo attraverso le finestre della mia casa, come se fosse attraverso lo spioncino di un carro armato». Si crea pertanto un rapporto simbiotico che porta necessariamente ad una scelta radicale, vivere o documentare: «Ma io so che d’ora in poi devo scegliere tra filmare e mangiare la minestra» (facendo eco allo stesso «Posso vivere mentre sto filmando?» di Ross McElwee).

Diary è una lunga riflessione metacinematografica sul senso del filmare e i relativi metodi di scrittura. Lo strumento-cinema è un nuovo occhio artificiale,  una lente, ma anche una delle tante finestre (fisica-simbolica) che giocano un ruolo centrale all’interno della narrazione: la finestra su Tel Aviv è il luogo attraverso il quale prende coscienza della indecifrabile umanità che scorre; la finestra televisiva, invece, quella dal quale entrano le notizie della Storia. Egli osserva, assimila, scrive con il proprio sguardo: la cinepresa diviene un foglio bianco e allo stesso tempo una maschera dietro la quale nascondersi, in silenzio, per osservare anonimamente gli Altri.

GLI ALTRI

«Io voglio fare film sulla gente. Mi offrono film sulle idee, commemorazioni, giorni del ricordo. Grossi avvenimenti tutti intorno e al cinema sterilità, superficialità». Diary è un film corale che non esisterebbe senza le persone che lo abitano: la famiglia, gli amici, i passanti ignari. Tutte queste figure concorrono nel disegnare le fondamenta attorno al quale si erge. I loro gesti, i loro piccoli movimenti assumono improvvisamente interesse assoluto in Perlov, a partire da chi è a lui più vicino. Non c’è ombra di nostalgia nei ritratti vivaci delle figlie, piuttosto ammirazione e il vorace desiderio di comprendere le loro personalità, i loro mondi e un’intera generazione di giovani adulti che presto verrà chiamata alle armi, in una prospettiva che a tratti ricorda quella sartriana – ho bisogno di Altri, per cogliere a pieno tutte le strutture del mio essere – ma che sfocia poi in qualcosa di più, in un disinteressato e genuino trasporto verso l’individuo («I present the people I film with a lot of love»[2]). La cura su come rapportarsi al soggetto filmato è estrema, nella ricerca continua di quella “giusta distanza” che attanaglia ogni grande documentarista: è l’ostinata dedizione di un filmmaker che attraverso l’obbiettivo non ricerca nient’altro che l’amore dell’uomo.

Non c’è alcun tentativo narcisistico nel diario perloviano: la sua voce calda, in costante dondolio tra razionalità e sgorgo emozionale, non intende dare una spiegazione del presente, piuttosto pone continuamente dei quesiti. Da questa grande e ontologica epopea esistenziale ciò che resta è un atteggiamento ormai dimenticato: il rispetto per la figura umana nelle sue infinite forme.

[1] Maurizio G. De Bonis, Dati interiori di un osservatore anonimo. Il cinema di Daviv Perlov, CultFrame, 30 marzo 3008, https://www.cultframe.com/2008/03/diari-interiori-di-un-osservatore-anonimo-il-cinema-di-david-perlov-fotografia-festival-internazionale-di-roma-vii-edizione/

[2] David Perlov, My diaries, The Medium in 20th century Art, 1996.