Per quanto declinata in due soli titoli, la sezione fuori concorso Tracce di teatro ha permesso al Torino Film Festival di esprimere una riflessione aperta, profondamente saliente in questi mesi di chiusura non solo delle sale cinematografiche, ma soprattutto di quelle teatrali, proprio intorno alla relazione tra cinema e teatro, indagando ambivalenze e logiche di scambio di due mondi – due modalità di messinscena – storicamente in dialogo e negli ultimi anni sempre più spesso contaminati. Ripercorrere didascalicamente le grandi differenze tra i due media, toccando le due questioni centrali del campo di rappresentazione – il totale permanente nel teatro, anche a forza di curiosi espedienti di ingrandimento o focalizzazione luministica, trova la sua piena scansione interna soltanto nell’inquadratura cinematografica – e di conseguenza del punto di vista, del raggio di sguardo dello spettatore, non basta più evidentemente a risolvere questa relazione, laddove entrambi i linguaggi hanno saputo produrre nel tempo soluzioni, formule, strategie di stratificazione, tali da mettere in contatto palcoscenico e set.

Più puntale, soprattutto rispetto all’agenda culturale di questi mesi, è la riflessione sulla permeabilità o impermeabilità delle due esperienze, laddove il teatro apre all’evento della scena, a ogni replica differente, e alla relazione diretta, fisica, con il pubblico, e il cinema tende inevitabilmente a distanziare, a fissare le cose una volta e per sempre, specialmente quando aggrappato al potentissimo appiglio del testo. Una riflessione su cui oggi evidentemente si fonda la rivendicazione di un irrinunciabile primato teatrale ma da cui è possibile immaginare anche un cinema di confine, disponibile oltre il consueto a tenere socchiusa quella soglia di promiscuità e a favorire il manifestarsi di casi terzi, che sì si esprimono attraverso gli specifici del cinema, ma non rinunciano e anzi rilanciano le forme sospese di un’evidente contaminazione, in nome, probabilmente, di un’inafferrabilità che sottende la vita stessa, indipendentemente dai suoi territori di declinazione drammaturgica.

È certamente il caso del nuovo film di Paul Vecchiali, Un soupçon d’amour, un titolo programmatico che non a caso riesce a mettere insieme l’Andromaca di Racine e Lo specchio della vita di Douglas Sirk, a cui è dedicato, ripercorrendo le piste consolidate nel suo cinema della memoria, della malattia e delle relazioni. Geneviève Garland, celebre attrice teatrale, è impegnata nelle prove dell’Andromaca con André, suo marito e padre di suo figlio, il dodicenne Gérome, da tempo malato e per questa ragione recluso in casa. L’ossessione materna verso il figlio e la relazione di Andrè con la migliore amica Isabelle spingono Geneviève ad abbandonare la scena e a ritirarsi col figlio nella cittadina d’origine. La vita di Geneviève diventa un territorio di frontiera tra la relazione complice con Gérome e la necessità di dare una risposta a tutte le persone che fanno parte della sua vita, e che le chiedono con forza di rivedere la sua decisione di lasciare lo spettacolo. Da qui un film dove la dimensione spazio-temporale tende a contrarsi e a dissolversi, rilanciando la spinta immaginativa della vita anche attraverso l’evocazione del musical, della danza, del miraggio, totale fantasia interiore dove – tra l’altro – è totalmente solidale e felice la relazione tra due personaggi femminili (proprio come accadeva nel film del 1974 Femmes Femmes): “stop alla realtà”, ci dice il regista, e qui sta forse la formula di transizione tra la tensione ordinatrice del cinema e la forza travolgente della prova teatrale, spazio magico, lunare, possibile proprio perché fondato sul potere infinitamente catartico della relazione.

Su una relazione da ricostruire si basa anche il riuscito Quasi Natale di Francesco Lagi, adattamento dell’omonimo testo teatrale da lui firmato, e caratterizzato dal coinvolgimento degli stessi attori della compagnia Teatrodilina (Anna Bellato, Francesco Colella, Silvia D’Amico, Leonardo Maddalena) che già lo avevano messo in scena: due fratelli e una sorella quarantenni si ritrovano alla vigilia di Natale nella loro casa d’origine, intorno a un’invisibile figura materna che ha determinato il loro ricongiungimento, sotto gli occhi di un quarto personaggio femminile che è testimone e vettore di un possibile rilancio dei sentimenti. Nel film corale di Lagi, quasi interamente girato in interni plumbei e invernali, l’asfissia tragicomica di inquadrature strette, sempre addosso ai personaggi e agli oggetti di una vita ormai dimenticata, testimoniano la possibile traduzione cinematografica di una storia di legami naturali da ristabilire a fronte di un’incontenibile dispersione psichica individuale. Film godotiano in senso generazionale e in direzione nazionalpopolare (ma non mancano sparute suggestioni da un illustre precedente autoriale, il Racconto di Natale di Desplechin), Quasi Natale è il riflesso di un processo di conversione nella messinscena dove a contare è il rapporto tra i corpi attoriali e quell’inesauribile peso del tempo che sembra sbarrare a ogni passo le loro idiosincrasie, i loro tentativi di fuga, le loro false coscienze. La storia si risolve in un nulla di fatto, ma in quel nulla di fatto c’è spazio forse per inventare una rilettura della propria vita e della fraternità, come in un curioso, insensato, beato scherzo del destino. [Marco Longo]


The-Last-Hillbilly

Non con uno schianto

Hillbilly è una vox media del vocabolario americano. È cioè una parola che non possiede autonomamente un valore positivo o negativo: è il contesto in cui viene usata a definirne la qualità. La crasi di hill-folk – termine scozzese usato per persone che preferiscono l’isolamento sociale – e billy – compagno –, hillbilly, ha appunto un significato dispregiativo e un significato positivo: indica le persone che risiedono nelle aree rurali degli Stati Uniti giudicate arretrare e violente, e contestualmente, allo stesso tempo, individui indipendenti e autosufficienti che resistono alla modernizzazione della società. L’ambiguità linguistica costitutiva del termine si indirizza soltanto tramite un’operazione di contestualizzazione che è sempre un’azione di esclusione: nel momento in cui realizzo, attualizzo in un contesto il termine, perdo la potenzialità ambigua sospesa nel termine stesso e guadagno una definizione, che è frutto dell’eliminazione di una delle due alternative. Gli hillbilly vivono realtà differenti a seconda della direzione definitoria disposta nei loro confronti da altri o da loro stessi. È la questione dell’invisibile produzione del soggetto attraverso il linguaggio, e volendo ampliare in senso lato, il problema della produzione di ciò che il potere giuridico dice di voler solo rappresentare.

The Last Hillbilly di Bouzgarrou e Jenkoe, presentato a TFFDOC/Internazionale, ragiona in merito a questo invisibile linguistico. La razionalità del gesto cinematografico è accentuata come primo aspetto di questo documentario non per rilevarne l’astrattezza intellettuale o le pretese trattatistiche, ma per sottolineare la consapevolezza con cui esso stesso pensa al problema della rappresentazione: il primo intervento dei due registi è sull’aspect ratio dell’immagine, cioè sul formato dell’inquadratura, sulla misura della rappresentazione, perché un’immagine che problematizza le dinamiche di rappresentazione dei soggetti non può che iniziare da una dichiarazione di misura, una scelta di rapporto d’aspetto, una presa di posizione rispetto al mondo rappresentato. Nella misura in cui l’identità degli hillbilly è frutto di un’esclusione, così la prima immagine della realtà forestale del Kentucky è il risultato di una forte rimozione di campo o di una forte produzione di fuori campo, a seconda del lato da cui si guarda: in entrambi i casi il visibile scelto dice del rimosso invisibile e il rimosso invisibile dice del visibile scelto. È l’immagine del cinema che semplicemente inquadrando mette a nudo l’operazione di scelta e quindi di rimozione della rappresentazione, e il circolo di interminabile prodizione creativa in cui il niente produce il qualcosa e il qualcosa definisce il niente. Su questo grandioso ripiegamento si potrebbe indugiare, perché si potrebbero seguire i rivoli delle significazioni prodotte dallo zampillo dell’immagine contratta e rimpicciolita: tutto il nero che avvolge quegli spicchi di cielo e di terra prima potrebbe rimandare a una natura non ancora invasa, a un angolo altro, sconosciuto, circondato dall’ignoto profondo, come in una originaria terra appena formata; quando però il nero squaderna verticalmente l’immagine di un cervo morente nell’acqua ecco che il colore è solo ultimo spasmo del corpo, agitazione di morte incombente, funerale di vita, bara sepolta in fondo alla terra.

Così l’immagine del paradiso ignoto diventa, per trasformazione del rapporto d’aspetto, per modulazione di aspect ratio, inferno in terra fatto di sangue, come nel canto dell’abitante della regione che racconta di come la terra sia stata presa tramite l’uccisione dei suoi precedenti abitanti e tramite l’addomesticamento del selvatico, l’adattamento alla propria dimensione, alla propria visione, e di come questa violenza alla terra, esclusione, rimozione, sia diventata produzione di identità, di immagine, e quindi legame indissolubile con la terra, unità. L’identità degli hillbilly è prodotta dalla rimozione dell’altro, come qualsiasi identità, che sorge dalla definizione di sé come differente da altro; la storia di questa identità è quindi legata indissolubilmente alla terra che hanno costretto alla loro dimensione, e quindi è impossibile non considerare la loro identità tramite il contesto che hanno trasformato nella loro abitazione: l’identità hillbilly è vittima di un processo definitorio che l’ha vista responsabile, secondo un circolo inestricabile di violenza che produce in risultato solo morte.

The Last Hillbilly però non ha certo l’intenzione di definire niente, anzi, la sua operazione è quella di sospendere la definizione e tornare all’ambiguità sospesa pre-rappresentativa, per identificare il pericolo della rimozione prodotta dalla rappresentazione da qualsiasi versante venga prodotta. Per questo, ora che, nel secondo decennio del nuovo millennio, gli hillbilly si considerano vittime del progresso che li vuole definire come fuori dal mondo e dalla sua ratio, e individui abbandonati che lentamente scompaiono fuori dallo schermo, sempre più involuti, l’immagine consapevole della ratio di rappresentazione agisce incontrandoli: in un territorio fuori dalla definizione, cioè dai processi di produzione giuridica di soggetti naturalizzati (la finzione, che curiosamente ha prodotto proprio nella stessa frazione temporale un prodotto, Elegia americana di Ron Howard, sugli stessi argomenti), ma disponibile alla testimonianza.

La dimensione del documentario rilegge la rappresentazione come dimensione non di violenza definitoria ma di testimonianza, perché è rappresentazione cosciente della rimozione collaterale. Come si diceva è l’immagine del cinema l’immagine consapevole degli effetti della rappresentazione, perché il non rappresentato produce un fuori campo che è sempre attività pensante che definisce il campo – e non è forse la sola vera invenzione del cinema il fuori campo? La testimonianza è ascolto, ascolto del ricordo, e in questo caso ascolto del racconto di un uomo che sembra essere l’ultimo a ricordare le contraddizioni della sua identità e della sua Storia, un uomo costretto a proteggere i propri figli dalla consapevolezza del loro passato, nel paradosso di una difesa della dimenticanza, sempre più alimentata dal progresso tecnologico, e dell’ignoranza della propria tragica condizione. Un uomo che per confermare la propria identità storica si produce nella conservazione dell’inerzia della propria condizione (i vagabondaggi tra boschi e fiumi, radicati nel proprio interminabile riflusso, da cui emergono corpi morti e lapidi, ma anche la pulizia dei cervi imbalsamati), pur essendo consapevole che questa coazione a ripetere lo stato di morte non permette che di morire ogni giorno un po’ di più e di allargare soltanto un pochino in là il cimitero vicino a casa fino a rendere il cimitero indistinguibile dalla casa stessa. La tragicità della dimensione prorompe dall’irreversibilità della vita e dalla necessità che si fa propria, come nelle parole di un bambino che all’oscuro della propria realtà segna già, per quanto inconsapevole, un patto di sangue con il proprio destino leggendo piano piano, saggiando le parole come bagnando i piedi nell’acqua fredda, dalle pagine di Giobbe 29, 18: “Spirerò nel mio nido e moltiplicherò i miei giorni come la sabbia”. L’immagine ascolta, e riflette la tragedia dell’identità costretta a se stessa dalla definizione esterna e dalla storia interna del proprio popolo, la tragedia di trovare un posto nel mondo e dominarlo per dirsi esistenti e reali, la tragedia della condizione contestuale di responsabile e vittima, tramite il ridimensionamento di ciò che si vede e ciò che non si vede, della misura con cui si rappresenta. Così tutto lo spazio si riduce infine allo stesso bambino, che, nel campo consapevole della rimozione del fuori campo, respira la realtà che conosce e il futuro che sta davanti a sé e il passato che lo definisce, interpretando l’uragano come gioco, perché il tragico spirare distruttivo intorno al mondo è la prima legge di gravità del suo regno. [Leonardo Strano]