Sogni al campo ricorda una finestra spalancata su un immaginario onirico eppure tangibile. Ma anche una distesa senza nome, un ritaglio abbandonato e sospeso in cui le lancette avanzano e retrocedono guidate da intime e nostalgiche suggestioni.
Il cortometraggio d’animazione, realizzato da Magda Guidi e Mara Cerri e presentato in anteprima mondiale alla scorsa edizione di Venezia – sezione Orizzonti –, narra la storia di un bambino che cerca il suo gatto Leo. Questa vicenda così semplice confluisce in una trama più articolata, all’interno della quale ogni pennellata diviene il portale per accedere a verità più grandi e recondite.
Le due artiste riescono infatti in un’operazione complessa: racchiudere in meno di nove minuti tutto ciò che il processo di crescita porta con sé. La purezza dell’infanzia si trova costretta a lasciare spazio alle turbolenti impressioni dell’adolescenza, a confuse e instabili memorie legate alla perdita, all’abbandono e all’accettazione di esse. Una densa storia di metamorfosi che si riflette nelle tecniche impiegate, in un flusso cromatico e materico che trova come rifugio ultimo il paesaggio. Questo legame antalgico con l’ambiente naturale circostante rende Sogni al campo un unicum che sembra provenire da un’epoca lontana.
Una singolarità che si fa più forte se inserita nel contesto nazionale. Abbiamo intervistato Magda Guidi e Mara Cerri – animatrici, illustratrici e docenti, formatesi insieme all’ISA di Urbino – per parlare del loro processo creativo, del libero gesto artistico, e porre alcune riflessioni sul non adeguato riconoscimento del cortometraggio d’animazione in Italia.
Come nasce Sogni al campo e cosa implica realizzare un’opera così articolata?
MG: L’opera è nata all’inizio da una serie di disegni fatta in assoluta libertà che pian piano hanno iniziato a suggerirci qualcosa. Poi si è ampliata attraverso i nostri immaginari e dal confronto tra me e Mara, un’operazione che ci riesce molto naturale.
Questo è infatti il nostro secondo film insieme, il primo è stato Via Curiel 8 (2010). Da Via Curiel 8 a Sogni al campo sono passati 10 anni ma in realtà la lavorazione di quest’ultimo è partita pochissimo dopo. Ha avuto un percorso produttivo un po’ problematico: non riuscivamo mai a trovare le condizioni ideali, in particolari economiche, per poterci dedicare ad esso serenamente. La lavorazione allo storyboard è iniziata attorno al 2012. Abbiamo provato diversi percorsi ma non abbiamo mai trovato i finanziamenti adeguati, anzi all’inizio non ne trovavamo affatto. Abbiamo deciso nonostante questo di continuare ad occuparci al corto nei ritagli di tempo di entrambe.
Otto anni sono davvero tanti. Cos’è cambiato e quanto hanno influito questi ostacoli esterni sul vostro lavoro, al di là della tempistica?
MG: Il progetto è chiaramente cambiato diverse volte in alcuni dettagli, in altri è rimasto sempre lo stesso. È capitato qualche volta, partecipando a dei bandi, di percepire delle interferenze, ma queste non sono mai state decisive: diciamo che le persone che vedevano il nostro modo di lavorare suggerivano alcune modifiche, ma mai sostanziali. Lo scheletro della storia è sempre rimasto quello; nei dettagli siamo intervenute spesso fino ad arrivare alla forma definitiva, quella attuale, che veramente convinceva tutti, me e Mara, i produttori e tutti i collaboratori, compresi Stefano Sasso e Massimo Volume che hanno curato tutta la parte musicale e sonora.
MC: Era molto importante che dentro la storia, insieme a noi, ci fossero ben saldi gli sguardi dei produttori poiché erano le persone che ci dovevano aiutare a far progredire il film. Era essenziale che fosse chiara a tutti la dinamica e la drammaturgia dell’opera. Non è così automatico, in particolare nell’animazione, proprio perché è cinema, ma è anche pittura. Ci sono moltissime associazioni e significanti che vengono proprio dal segno e dalla pittura stessa, non sempre ben visibili dallo storyboard: chi guarda al progetto con un occhio puramente logico difficilmente coglie alcuni sottotesti.
Il fatto che si tratti di un’opera ibrida, realizzata e disegnata a mano, ne rende complessa l’immediata comprensione e la collocazione.
MC: Sì. Tutta la serie di informazioni che il segno porta con sé non sono subito esplicite, sono molto più chiare in corso d’opera. C’è una struttura interna e invisibile, che si erge nel momento in cui porti lo spettatore nel disegno e in quella dinamica, che si palesa solo a lavoro finito. Per noi certe cose sono scontate, ci siamo dentro. Le difficoltà che si incontrano sono dettate dal fatto che questo tipo di cinema, con questo tipo specifico d’animazione, sono in pochi ormai a farla: chi veramente è dentro la materia può ragionare con te, chi non lo è purtroppo rischia di fare interventi totalmente inopportuni sul lavoro stesso. Quindi bisogna stare molto attenti a difendersi da questa cosa. Per questo a volte pur di preservare il tuo lavoro rinunci a certi percorsi, sicuramente più facili che però lo snaturerebbero. Decidi di proseguire da te perché tu vuoi scoprire qualcosa con quel mezzo. Non sarebbe possibile se ti adatti in continuazione a dei punti di vista esterni. Questo non vuol dire una chiusura totale: siamo ben consapevoli che il lavoro deve arrivare a un pubblico ampio, però ci dovrebbe essere un po’ più di fiducia verso questo mezzo, che ha potenzialità incredibili, spesso poco chiare da fuori. Ci dovrebbe essere una elasticità da tutte le parti: ovviamente un autore tiene presente sempre i consigli che gli vengono suggeriti ma è vero anche che è custode di cose che in quel momento solo lui vede, sente e sa di poter esprimere in quel modo.
Diciamo che quello che manca alla base è anche una fiducia nei confronti dell’artista. Quando si sono sbloccate queste dinamiche?
MG: Assolutamente sì, ed è un grande peccato perché poi si rischia di diluire molte cose e di andare verso un tipo di animazione omologata. Per fortuna circa un anno fa siamo riuscite a trovare dei finanziamenti in Francia, in più con l’aiuto di tre stagiste studentesse all’Isia – che ci hanno aiutato per un mese – siamo riuscite a chiudere il film. L’opera è una co-produzione tra la francese Miyu Productions e l’italiana Withstand Film, frutto di un grande lavoro di squadra. Questo appoggio è stato fondamentale: come potrai immaginare dopo tutti questi anni il desiderio di concludere era diventato una necessità fisica.
Miyu è diventata un po’ la mecca dell’animazione contemporanea, soprattutto per quei Paesi come il nostro che non hanno un appoggio concreto, sia a livello produttivo che distributivo.
MC: In Francia hanno un sistema totalmente diverso, ci sono tantissime scuole e centri importanti di animazione. Questo anche a livello statale: basti pensare al fatto che alcuni artisti possono percepire uno stipendio per sbloccare i loro lavori. Esistono tutta una serie di risapute agevolazioni che determinano la facilità con cui certe produzioni riescono a portare avanti opere di qualità: le due cose sono strettamente legate. Miyu è un team giovane, determinato, molto in ascolto degli autori e rispettoso. Più si riesce a instaurare questo tipo di rapporto meno cose si perdono per strada, dall’ideazione del film fino alla distribuzione finale. Dove vedono una determinazione da parte dell’artista e una necessità d’intenti sono in grado di sostenerla, come succede anche nel cinema più indipendente. Un bravo produttore deve essere in grado di coniugare entrambe le parti: difendere il lavoro del suo autore e contemporaneamente saperlo inserire in una situazione più grande.
In Italia il cortometraggio d’animazione viene visto quasi come un non-genere. Sia per la sua durata, che lo relega a mero momento di sperimentazione o allenamento del suo autore, una sorta di un medium riempitivo, sia perché si tende a pensare all’animazione come a una forma destinata ai bambini. Sogni al campo riesce a smentire abilmente questi luoghi comuni.
MG: Sicuramente c’è una mancanza e un limite culturale. Se cresciamo con delle animazioni d’importazione o cerchiamo di fare lavori che emulano altri mondi e sistemi di organizzazione artistici, mentali e così via, non saremo in grado di raccontare da dentro. Non saremo capaci di proporre delle narrazioni originali che non siano appunto un duplicato. È sempre lì, bisogna avere sempre uno sguardo aperto e cogliere anche nel territorio, nell’inconscio collettivo di un Paese quello che sei in grado di raccontare in maniera diversa, in base al tuo punto di vista.
MC: Sì, c’è un problema culturale molto ampio che ovviamente investe il mondo del cinema e il cinema d’animazione ancor più. Difficile intravedere anche una soluzione o un possibile cambiamento. L’importante è non lasciarsi condizionare da questa situazione. Una parte di persone attente ed interessate c’è e continua ad esserci ed è meglio concentrarsi su questo, senza la pretesa o l’illusione di poter stravolgere il sistema: bisogna prendere atto che è così e fare forza su tutta quella parte di pubblico presente, ma anche quella che se viene abituata o stimolata nel vedere qualcosa di diverso ne capisce il valore, interessandosi anche a qualcosa che viene promosso con difficoltà. Non è quindi solamente un problema di pubblico ma è anche mancanza di coraggio da parte di tutti gli enti che potrebbero proporre qualcosa di diverso e non lo fanno.
Nel complesso questo tipo di animazione resta principalmente un prodotto da festival cinematografico.
MC: Non solo. Ci sono tante situazioni parallele in cui il cinema d’animazione gravita. Basti pensare ai festival di fumetto. C’è una cultura verso l’immagine che va accrescendosi passando dall’editoria, in realtà. Quindi arriva attraverso forme più ibride, che non sono strettamente cinematografiche. Anche questo è un mondo che sta diventando molto ricco. Bisogna cercare di tenere un occhio verso quelle che sono le altre realtà che vi gravitano intorno e che possono guardare all’animazione: non possiamo sempre pensare a delle nicchie. Allora divengono tante le occasioni e le forme possibili, dal documentario che usa l’animazione ai disegnatori che si sperimentano. Non è detto che la luce arrivi dal cinema.
Sogni al campo rappresenta un’opera che può essere realmente elevata a universale, senza luogo e senza tempo. Capace anche di assumere una vita propria in base a chi la guarda. È un risultato estremamente affascinante, che immagino ripaghi le numerose fatiche.
MG: Era tra le nostre intenzioni infatti. Anche l’impronta generazionale o l’attenzione al “nostro” paesaggio è un pretesto per cogliere un sentimento che è di tutti. Ognuno ha la sua memoria, i propri paesaggi: è proprio quello che speriamo venga colto. La parte stimolante e divertente è cosa viene fuori dal confronto tra me e Mara. Nel processo creativo, proprio quando ci metti le mani dentro, c’è sempre quel momento, quella sbavatura o quell’errore che fa deragliare tutto e ti porta in una strada selvaggia. Quello lo può fare solo l’autore: anche noi non sappiamo cosa c’è al di là. Questo momento di scoperta, di ricerca, è davvero esaltante e certe volte ci ha messo i brividi. È anche con questo spirito con cui pensiamo ai progetti futuri, ovviamente in testa abbiamo qualcosa ma ci piace fantasticare e immaginare cosa può spalancarsi a partire da quello che stai disegnando. Esattamente quello che riesci a scovare tra le trame, nel momento in cui stai creando.
A tal proposito, mi tornano in mente le transizioni associative su cui si crea la struttura narrativa di Sogni al campo. Quell’insieme di rimandi inconsci. Forse sono una cifra stilistica vostra, presente un po’ anche in Via Curiel 8.
MG: È quello che cerchiamo di spiegare. Il pelo che diviene grano, che poi diviene fuoco. Sono tutte connessioni dettate proprio dalla materia che stai manipolando in quel momento. Nel cinema d’animazione la tecnica che tu usi non è mai solo il trattamento, questo termine che viene usato in fase progettuale. Non è riempire delle linee, degli spazi: è il contenuto stesso del tuo racconto.
MC: Sì, poi per me c’è una cosa strana che succede mentre racconti le storie. Quando lavoriamo, attingiamo a un serbatoio di immagini, di reminiscenze che come dici a volte sono inconsci. È indubbio che poi i riferimenti che chiami in causa hanno tutta una serie di potenzialità che li riguardano. È come se tu metti dentro un contenitore tutte queste cose che ti vengono da un’esperienza, da qualcosa che hai visto e stai citando. A sua volta, all’interno, quello specifico materiale è in grado di realizzarsi proprio perché diviene nuovamente un altro serbatoio di memorie. È questo l’aspetto misterioso, che le cose in qualche modo si organizzano in un rapporto di forza, quasi di alchimia, che non puoi contrastare. Ad un certo punto è molto chiaro quando una cosa funziona oppure no. Sono i legami interni degli elementi che hai predisposto che dettano l’ordine. Quando succede senti che nel tuo piccolo stai manipolando una creazione che corrisponde a delle regole che valgono sempre. Ed è come se fossero tanti cerchi concentrici che si espandono. Ovviamente è molto bello.