“Quando si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto. Non vi è mai un inizio. I giorni si aggiungono ai giorni, senza capo né coda, è un’addizione interminabile e monotona”. Jean Paul Sartre sentiva di aver carpito con La nausea le più segrete verità sulla condizione umana, sul carattere precario e limitato dell’esistenza. Le opere di Philippe Garrel non si sono mai basate su una filosofia esistenzialista nell’accezione storica del termine, quanto piuttosto su un’architettura visiva modellata su corpi e spazi, lasciando così la ricerca psicologica apparentemente sullo sfondo. Eppure a ben vedere la condizione esistenziale dell’uomo e della donna emerge continuamente, offrendosi di fatto come una delle istanze principali in tutta la sua produzione cinematografica, a partire dalle creazioni sperimentali e underground delle origini – anni Sessanta e Settanta – fino all’ultimo Garrel “del dialogo”, più narrativo e classico.

Le Sel des larmes è il ventiseiesimo lungometraggio diretto dal regista francese, presentato alla scorsa Berlinale, successivo al trittico amoroso inaugurato con La Jalousie (2013) e conclusosi con L’Ombre des femmes (2015) e L’Amant d’un jour (2017). Le lunghe e non sempre necessarie lezioni sull’amore di Garrel confluiscono anche in questo caso in un affresco sentimentale che si insinua in più e già battute strade, a dimostrazione di un cinema che si ripete sempre uguale nei suoi schemi ma che allo stesso tempo tenta di cogliere e adattare le proprie trame al presente e alla generazione di riferimento.

La fotografia in bianco e nero conferma il sodalizio con Renato Berta nel raccontare gli anni della giovinezza nonché gli amori di Luc, intento a seguire le orme lavorative del padre, artigiano del legno. È una storia che si apre a una fermata dell’autobus nelle vie periferiche di Parigi, che odora di provincia e palesa fin dall’inizio la ricerca del protagonista di una nuova ed emozionante stagione della propria vita. Il punto di vista maschile prevale nel testo filmico snodandosi attraverso il susseguirsi di tre vicende amorose, differenti e volutamente poco abbozzate (quasi caricaturali) le quali in realtà fanno da corollario a un altro rapporto. La narrazione orizzontale segue infatti le linee e i confini di un amore ben più grande, probabilmente di ispirazione autobiografica, quello tra Luc e suo padre: uguali ma diversi, uniti in un dolce e materno rapporto simbiotico.

Garrel pone l’attenzione su quell’unico legame emotivo capace di permanere nella vita e ostacolabile solo dalla morte, così equilibrato da rasentare l’inverosimile. Un padre che cerca, non dice, non giudica, che bussa alle porte, rispetta gli spazi e le decisioni del figlio, ma che in continuazione palesa la propria costante presenza, fino a divenire ingombrante. Proprio per questo i rapporti di Luc non si esauriscono mai nella dualità e vedono sempre un terzo elemento irrompere, che sia un figlio o un inquilino indesiderato, in una composizione trittica che compare sovente nei film del regista a partire dagli esordi, primo su tutti Le Révélateur (1967).

Per tutta la durata del film assistiamo alla spasmodica ed egoistica ricerca di Luc di una compagnia femminile, a tratti irritante, tant’è che entrare in sintonia con il personaggio risulta complesso. Forse è questo che stride ma contemporaneamente convince all’interno dell’ultima opera di Garrel: le dinamiche dei sentimenti risultano talora artificiose; lo stesso vale per il tempo del racconto, per i suoni e per gli spazi. Proprio su questi ultimi occorre ragionare: quella che ci mostra Garrel è una Parigi fuori dal suo tempo, deserta, silenziosa, privata del moto sociale e politico di chi la abita e che da sempre la contraddistingue. Non c’è giorno, non c’è anno, ma un continuum storico sospeso e privo di legami con la realtà tangibile, nella quale anche gli smartphone sono tagliati fuori. C’è una linea piatta che continua ad avanzare e che sembra spezzarsi infine nella scena di danza, nella seconda metà del film, omaggio e richiamo a Les Amants réguliers (2005): in quella coreografia ragionata, in quell’insieme di corpi appositamente posizionato – due ragazzi seduti assistono infatti allo spettacolo – è però difficile scorgere un atto liberatorio. L’unico vero momento di coralità del film svela la propria costruzione e desolazione.

Garrel filma ancora una volta le alte solitudini a cui ci ha abituato, collocandole però in questo caso quasi verso un punto di non ritorno e rivelando così l’inettitudine sociale e le istanze individualistiche dell’essere umano, la cui incapacità di governare la realtà rimane in costante tensione tra il desiderio e l’impossibilità del suo soddisfacimento. Le Sel des larmes è un racconto monocorde e proprio in quanto tale riesce a svelare la finitezza e l’irrisorietà che spesso caratterizza la vita di tutti.