Tra i personaggi raffigurati dalle carte dei Tarocchi, la Papessa è il soggetto femminile più enigmatico, portatrice di mistero, donna dotata di intuizione, divinazione, colei che grazie alla propria conoscenza interiore e al collegamento con la luna è capace di svelare ciò che è nascosto. La figura della scrittrice americana Shirley Jackson (interpretata da Elizabeth Moss, la cui somiglianza con la scrittrice è oggettivamente impressionante) così come viene raccontata nel film diretto da Josephine Decker, ricorda esattamente quella del secondo arcano.

Tratto dall’omonimo romanzo di Susan Scarf Merrell, Shirley è un unicum narrativo che mescola riferimenti autobiografici, letterari, immaginifici, portando con sé la tensione emotiva del thriller psicologico. La linea interpretativa oscilla costantemente tra verità e visione, così come dovrebbe essere quando si parla di una delle più grandi scrittrici dell’orrore del secolo scorso.

È su La lotteria – lo scritto che ha consacrato-condannato Shirley Jackson ai lettori – pubblicato sul New Yorker nel 1949 che si apre il film: lo spettatore viene catapultato direttamente sul e nel racconto, all’interno dei medesimi reticoli narrativi jacksoniani. Immergersi nell’opera di Decker vuol dire entrare nella mente della scrittrice assaporandone il turbolento processo creativo, nello specifico, quello che l’ha portata alla stesura de La ragazza scomparsa, la cui genesi è ispirata a un fatto di cronaca. Riuscire a scorgere cosa è frutto della mente di Shirley donna, amica, moglie, amante, e Shirley scrittrice, inventrice di storie dell’orrore (strega?), non è operazione facile. Più trame si sovrappongono fino a confondersi e divenire indistinguibili: ognuna di esse è una finestra aperta su un immaginario indefinito e invita l’osservatore a un totale e fuorviante abbandono cognitivo. La regista si muove tra dimensioni allucinatorie e oniriche, confermandosi abile ed esperta nel raffigurare personaggi mentalmente instabili, nel giocare attivamente con le inquadrature e gli strati della percezione, come già aveva fatto con Madeline’s Madeline.

Questa particolare tensione cresce a ritmo incalzante con l’avanzare di entrambi i racconti – film e libro – il cui progredire è a sua volta concatenato all’avvicinarsi delle due protagoniste, Shirley e Rose, che arriva in casa Hyman-Jackson in un momento molto particolare, in cui la scrittrice soffre di agorafobia. L’incontro, inizialmente tormentato, le consentirà di sopravvivere a quel focolare domestico, prigione fisica e mentale; contemporaneamente, Rose, in attesa di un figlio, imparerà a riconoscere le insidie della vita coniugale. Mentre la seconda fiorisce la prima appassisce e viceversa, in un rapporto d’amore che oltrepassa il concetto di amicizia per esprimersi in un rara e delicata simbiosi empatica, di sorellanza femminile. L’unione tra Shirley e Rose (di fatto incompresa dagli altri protagonisti) resta un piccolo segreto, una fugace risata nell’aria pronta a svanire: non si manifesterà – come accade spesso nei film con protagoniste femminili – nell’eroico riscatto della propria identità, quanto piuttosto nella consapevolezza e triste presa di coscienza della propria condizione di dipendenza e subalternità in quanto mogli, madri e donne oscurate dalle ombre maschili, in quell’America di inizio anni ‘50 («The world is true cruel for a girl»). Non c’è lieto fine, non esiste ribellione plausibile, o almeno, non nella realtà abitata dalle due protagoniste.

Shirley Jackson, in uno dei suoi romanzi più famosi, L’incubo di Hill House, scrive: «Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; persino le allodole e le cavallette sognano a detta di alcuni». C’è un solo modo per sopravvivere e non diventare pazzi – se non agli occhi degli altri, almeno davanti ai propri – cioè immaginare, inventare, dare nuova forma agli incubi e alle creazioni della propria mente.

Guardare Shirley è proprio come leggere un libro di Shirley Jackson, a tutti gli effetti. Josephine Decker ripercorre gli stessi schemi semiotici, i medesimi afflati e crescendo adottati dalla scrittrice nelle sue opere: non si limita alla trasposizione di una trama, bensì ricrea con la macchina da presa le sensazioni che quella trama ha suscitato. Il suo è il film a cui poter fare riferimento per il ripensamento del biopic, un genere che poco spesso cerca di superare i propri limiti.