Il fenomeno della trap è stato molto spesso frainteso. Come il rap è un movimento che parte marginale, dal basso, fino a divenire parte integrante, se non dominante, dell’immaginario popolare contemporaneo. Entrambi i generi nascono dall’urgenza espressiva di una generazione che necessita un’autodeterminazione identitaria che esorcizzi il disagio esistenziale di una vita consumata nelle periferie della società. Ma se la premessa della musica rap consiste in una riappropriazione sociale e politica basata sul conflitto e sull’attinenza alla realtà, la trap ha assunto sempre più un atteggiamento volto all’edificazione di un immaginario condiviso finzionale. Immaginario che risulta indispensabile per la messa in scena di un’esibizione esasperata e opulenta di un potere (fama, soldi, ecc.) non detenuto da chi ne canta.

In Atlantide di Yuri Ancarani, presentato nella sezione Orizzonti della 78a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e film d’apertura al Filmmaker Fesitval di Milano, questo consumo ostentativo passa anzitutto attraverso l’immagine, mai così in bilico tra puro estetismo e mera esigenza narrativa.

“Perdo sempre benzina.” Così esordisce Daniele, ragazzo di Sant’Erasmo (un’isola della Laguna di Venezia) che vive costantemente in simbiosi col proprio barchino. Un barchino altro non è che un motoscafo elaborato, o meglio, “pimpato”, sia nell’aspetto sia nelle prestazioni in modo tale che esso garantisca al giovane proprietario un’ascesa nella scala gerarchica. Daniele è un vero fedele del culto dei barchini e in essi ripone la sua intera prospettiva di vita, compromettendo e deteriorando sempre più i suoi rapporti familiari e affettivi, perfino quello con Maila, la ragazza con la quale è fidanzato. Per questo è altresì emarginato e alienato dal branco e la sua frase iniziale risuona al pari di una confessione religiosa, un’espressione dello stato in cui riversa la sua stessa anima. Il barchino è al contempo grembo materno e navicella spaziale, e Daniele uno Star Child che invece di svilupparsi verso un nuovo gradino evolutivo regredisce al bestiale e al primitivo, come mostra il suo volto scolpito dalle botte ricevute per il furto di un’elica.

Ancarani si ripete e come già fatto in The Challenge (2016) ricerca ancora una volta la mitizzazione di una sottocultura. La forma del videoclip, corrispondenza perfetta del contesto messo in scena, non è data solo dalla leziosa vacuità linguistica ma anche dalla struttura e dal montaggio di cui si avvale il film. Atlantide propone una certa ridondanza nella frequente proposizione di sequenze autosufficienti, chiuse in sé stesse, svincolate dalla continuità narrativa quasi fossero pretesti registici per espandere e approfondire l’ecosistema surreale e farsesco della laguna. Ma quella che spesso rischia di apparire come supponenza autoriale è disinnescata da momenti carichi di autoironia e bonarietà (altre caratteristiche della trap) come l’annuncio tg, falsissimo, della morte di Daniele o ancora l’utilizzo, esilarante, della cartaccia argentata di un Kinder Pinguì trascinata via dalla marea nel finale del film per indicare l’arrivo dell’acqua alta. L’immagine dell’uccello più acquatico in assoluto, il pinguino, trasfigurato in articolo di vendita, fa finalmente ritorno al proprio habitat naturale. Ciò che interessa Ancarani è il restituire, come fosse un etnografo, un’immagine il più veritiera possibile dei luoghi che sceglie di rappresentare nei propri film, liberandoli dal manto che il capitalismo ha su di essi imposto al fine di renderli niente più che prodotti commerciabili. In un’intervista per Filmexplorer Switzerland Ancarani dice a proposito di The Challenge:

“Secondo me in questo film l’oggetto più occidentale è il cammello. Perché la Lamborghini […] sì, è vero, è un oggetto italiano, è un oggetto meraviglioso, e secondo me il suo posto è proprio il deserto, cioè ci stava proprio bene. Però il vero oggetto occidentale è il cammello, ma chi cazzo lo usa più lì il cammello? Ma nessuno. Ha senso andare in giro nel deserto col cammello, quando tu puoi avere una jeep, 4×4, full optional col frigo bar e l’aria condizionata? Ma chi ci va in giro per il deserto? Solo i turisti. Solo gli occidentali.”

Grazie all’alluvione, miracolo climatico e produttivo per il film, Ancarani conduce abilmente i barchini alla presa di Venezia e dei suoi canali attuando finalmente quella riappropriazione culturale, qui per di più geografica, promessa dalla trap.

Atlantide è permeato da una luce diafana che assume sempre più corpo fino a investire i volti dei ragazzi, le mura degli edifici, la superficie dell’acqua e dell’immagine che si scardinano del tutto, riflettendosi l’una con l’altra nello Stargate acquatico della sequenza conclusiva. Ancarani non inverte il sotto con il sopra perché qualunque substrato altro non sarebbe che un riflesso a sua volta. Non è più importante la sostanza quanto lo specchiarsi stesso dell’immagine, del limite, della fenditura.