Si è conclusa da pochi giorni la quattordicesima edizione de Lo Schermo dell’Arte, il festival dedicato al cinema e all’arte contemporanea di Firenze, svoltosi dal vivo (dal 10 al 14 novembre) e online (fino al 21), punto di riferimento italiano e internazionale della produzione di moving images contemporanee. “Art is a constant struggle”, parafrasando il titolo del famoso saggio di Angela Davis, Freedom is a constant struggle. L’arte è una lotta costante: contro i formati, contro le convenzioni, contro se stessa. Con 39 opere in programma, tra corti e lungometraggi, il festival si interroga sul ruolo dell’arte oggi, maturando una profonda autocritica verso i sistemi elitari e occidentali con i quali si è strutturata nel corso del tempo, in un reenactment che ha come soggetto principale il linguaggio. Lo Schermo dell’Arte conferma la sua moltitudine di visioni sul mondo, sotto le superfici delle complesse realtà sociali, educando il nostro sguardo a “schermi” sempre differenti e capaci di porsi costanti domande.

Untitled
Untitled

Il linguaggio come materiale è al centro della produzione di Oliver Laric, scultore e video artista austriaco al quale il festival ha dedicato il suo focus. Laric, con i suoi brevissimi cortometraggi d’animazione digitale e found footage realizzati con materiali provenienti dal web, sia da YouTube (50×50, 2007, 2’6’’) che da un ampio repertorio pop cinematografico (Versions, 2010, 9′), indaga le possibilità delle metamorfosi, delle scomposizioni e ripetizioni offerte dalla rimediazione digitale, in un’esplorazione dell’esperienza e dei processi umani svuotata di ogni sua logica emotiva (5, 2003, 10’). Nelle opere dell’autore è sempre la forma che con piacere quasi da flâneur, avanza e vaga, spesso per assonanze o divergenze estetiche: è un punto di vista quasi non-umano sul mondo, in cui la manipolazione dell’immagine si esaurisce in una fretta consumistica (che conosciamo molto bene) tale da deteriorarla, svuotandola e riempiendola di nuova vita (Untitled, 2021, 4′). Attingendo al formato GIF (787 cliparts, 2006, 1’5’’) e alle infinite possibilità della materia e del montaggio, le veloci reiterazioni mai circolari delle sue opere ingannano i nostri occhi, seppur allenati alla velocità, sfidando la nostra capacità cognitiva: l’abbandono ai flussi cromatici e figurativi, anche quando spinti al massimo della loro astrazione o del non-sense, finisce per portarsi dietro una serie di significati semantici, storici, culturali, sociali aperti a infinite interpretazioni e possibilità narrative. Proprio per questo le schegge digitali di Laric, piccoli détournement, potrebbero essere riguardate all’infinito, volte a riflettere il loro meccanismo di costruzione sulla stessa modalità di fruizione.

SCHERMO-DELL-ARTE_At-Home-But-Not-At-Home
At Home But Not At Home

Il linguaggio digitale resta materico nella costruzione di due scenari virtuali, uno volto alla ridefinizione del passato, l’altro, all’immaginazione di un domani. Nel cortometraggio At Home but not at Home il giovane regista di origini indiane Suneil Sanzgiri combina immagini in pellicola, visioni di droni, screenshot, render in 3D e registrazioni di videochiamate su Skype (con il padre) nella ricerca delle proprie origini e ricostruzione dell’immaginario di un Paese che non ha mai visitato. Memoria e trauma si intrecciano in una narrazione svuotata dello stigma dallo sguardo coloniale: vicino al cinema di Harun Farocki, Sanzgiri provoca la Storia senza alcun timore e il desiderio di una nuova verità si realizza attraverso tutte le forze espressive del medium.

Khtobtogone
Khtobtogone

Khtobtogone è invece il cortometraggio d’animazione di Sara Sadik: servendosi dell’estetica asettica del videogioco GTA, prendiamo parte alle emozioni – fortissime e vulnerabili – di un giovane ragazzo lavoratore di Marsiglia di origini magrebine che si innamora di una ragazza. Sadik ci conduce in maniera sincera e quanto mai delicata tra le trame identitarie e le sfumature della giovane generazione francese di oggi, figlia di immigrati di seconda generazione e nuova classe operaia, tra mode e urban culture: come se mancassero storie capaci di rappresentarla in maniera autentica, l’artista ricrea digitalmente una nuova identità per narrare una “normale” storia d’amore, d’amicizia, di ricerca del sé, lontanissima dagli stigmi e dal preconcetto di mascolinità tossica che tendiamo solitamente a cercare e ad attribuire a un certo tipo di personaggio.

Bill Traylor: Chasing Ghosts
Bill Traylor: Chasing Ghosts

Sul ripensamento e sulla revisione delle narrazione standardizzate si modellano le linee tematiche del programma, dalle questioni post-coloniali in primis fino alle lotte per la libertà di espressione, all’identità di genere, al rapporto con la natura. Così, il documentario Bill Traylor: chasing ghosts dello statunitense Jeffrey Wolf rievoca per la prima volta la figura dello sconosciuto pittore autodidatta afroamericano, “il vecchio nero seduto sul marciapiedi di Monroe Street”, ex schiavo, nato tale, in una piccola piantagione dell’Alabama. Traylor passò tutta la sua esistenza in strada a disegnare, tra raffigurazioni rupestri e di animali, ricordi legati alle sue origini e all’infanzia nelle piantagioni. Attraverso la sua vita e i suoi disegni, Wolf ripercorre la storia dell’America e dello schiavismo dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ‘20 del secolo successivo, quando i neri lasciano il Sud rurale per andare al Nord, nelle città. Non manca la musica blues, componente fondamentale di tutta la produzione artistica afroamericana. Tra le testimonianze dei pronipoti, ignari fino a poco tempo fa del talento di quel lontano bisnonno e quelle degli artisti che lo hanno scoperto e studiato, il film eleva la figura di Bill Traylor a cantore per immagini, ponendo al centro il suo sguardo da escluso – ai margini non solo delle strade, ma anche della storia, dell’arte americana – riconoscendogli il posto che merita.

The White Cube
White Cube

Di responsabilità dell’arte bianca si parla, in maniera differente, anche nel documentario White Cube del regista olandese Renzo Martens: una storia di presa di coscienza, di una nascosta e importante rivoluzione. Martens, documentarista divenuto famoso con il documentario Episode III – Enjoy Poverty, si interroga sulle disuguaglianze, in particolare con il Sud del mondo, che si alimentano e sopravvivono attraverso i musei d’Europa. Siamo in una piantagione del Congo, stato che Martens conosce bene: a partire da un’ auto-denuncia necessaria – “il lavoro nelle piantagioni ha finanziato la costruzione nei musei del mondo” – il regista filma le difficoltà nella creazione non del tutto utopica di un centro d’arte nella città di Lusanga. Vi riuscirà, portando anche alcune sculture realizzate da uomini e donne congolesi a New York. Il film decostruisce e smonta, pezzo per pezzo, il senso di legittimità dei musei, delle gallerie ma anche dell’artista che realizza la propria produzione sulla e attraverso la “povertà” delle altre società. È lo stesso Martens ad ammetterlo: la realizzazione del suo primo film sullo stato di miseria del Congo lo ha reso ricco – lui, non i congolesi, soggetto e protagonisti del film senza i quali questo non si sarebbe realizzato. Martens invita al ripensamento della gerarchia artistica occidentale, finalmente conscia delle sue colpe, nel tentativo di allontanarla dai meccanismi di riappropriazione per indirizzarla a una dimensione più etica, inclusiva, libera della cosiddetta “fragilità bianca” (dallo studio del filmmaker emerge in primo piano la copertina del famoso libro di Robin Diangelo, White Fragility): qual è il ruolo dell’arte, come renderla non fine a se stessa, connessa alle trasformazioni del mondo reale? White Cube è la realizzazione di un immaginario, l’esempio di un’alternativa efficace, complessa ma possibile.

The Women of the Bauhaus
The Women of the Bauhaus

Anche l’arte del passato merita di essere rivista, illustrata nuovamente – oseremo dire per la prima volta – spogliata dello sguardo dominante attraverso il quale è sempre stata narrata. The Women of the Bauhaus di Susanne Radlhof rende omaggio a tutte le figure femminili di artiste, fotografe, pittrici, architette, designers, teoriche che hanno reso la Bauhaus tale. I loro nomi dicono poco poiché sempre oscurati dai maschili: sono quelli di Alma Buscher, Marianne Brandt, Gunta Stölzl, Friedl Dicker, Lucia Moholy, per citarne alcune. Sono passati più di cento anni dalla fondazione di quella scuola e seppur alcuni meccanismi sembrino restare invariati – la lettera di Stölzl, unica insegnante donna che chiede lo stesso riconoscimento economico dei colleghi maschi, sembra scritta oggi – avanza unita la riappropriazione dello spazio delle figure femminili, la rottura del silenzio e con esse la rivendicazione di tutte coloro la cui arte è stata comodamente e volutamente omessa.

Infine, vero gioiello e scoperta è Land of Dreams della filmmaker iraniana Shirin Neshat (in copertina all’articolo, un frame), film fiction di chiusura della XIV edizione. In un Nord America e in un presente/futuro non troppo precisato, Simin è una fotografa di origine iraniane che lavora per l’ufficio del censimento statunitense che, con lo scopo di controllare le vite dei cittadini, ha avviato un programma di registrazione dei loro sogni. Lontano dalla distopia o dalla fantascienza, tra surrealismo, satira e una buona dose di umanità, il film si ispira al fenomeno migratorio degli iraniani in America – iniziato negli anni ‘70 – offrendo un duplice punto di vista, quello di colui che odia il suo Paese d’arrivo e di colei che lo ama. Tra personaggi insoliti e caricaturali (tra il cast, anche Matt Dillon e Isabella Rossellini), seguiamo Simin in un viaggio alla ricerca della verità tra passato – il padre fu giustiziato dal regime iraniano – e i misteri del suo lavoro. Land of Dreams è il ritratto politico e ironico di un Paese che ha perso di vista se stesso e il proprio american dream, ed è costretto a cercarlo nel subconscio degli altri, per lo più cittadini stranieri, nemici da addomesticare. Neshat traduce così il forte clima di incertezza politica americano, ne smantella abilmente il presunto potere, denunciando implicitamente il consolidato pensiero razzista e l’incapacità di far fronte alle divergenze sociali.