A soli due film e pochi corti si può già intravedere il punto di fuga del cinema di Carla Simón. Per questa regista spagnola i film ruotano intorno a un trauma personale (autobiografico) e puntano a una soluzione sociale: sia Estate 1993, il suo film d’esordio, che Alcarras (già vincitore dell’Orso d’oro e film di apertura della quarantesima edizione del Bellaria Film Festival appena conclusa) partono da uno shock individuale – un lutto, una perdita, un’assenza – e si risolvono grazie alla socializzazione di questo stesso shock – la formazione o il rinsaldarsi di una famiglia, la costruzione di una coscienza di classe. In che modo Simón fa comunicare le due dimensioni, apparentemente irrelate, di psicologia e sociologia? Da inaspettata ammiratrice di Haneke – uno dei suoi film preferiti è Storie – la regista compie il passaggio tra trauma e condivisione del trauma grazie allo sguardo: è lo sguardo a portare il segno di una ferita e a essere il primo sintomo della sua guarigione. Nei suoi film il punto di vista individuale, identitario, sorge dal trauma, anzi di più, coincide con esso e se ne libera quando trova un altro sguardo con cui condividerlo, facendolo sentire parte di una totalità, di una continuità famigliare e generazionale. Si può vedere in Estate 1993 e nel percorso delle soggettive della bambina protagonista, che si stanziano di fronte al lutto e piano piano si integrano in un insieme di altre soggettive, in una famiglia; e si può vedere anche in Alcarras, film che amplifica il ragionamento e fa uno scatto teorico notevole, disinnescando la minaccia sottesa alla socializzazione – la discontinuità generazionale, che isola il lutto nell’assenza di comunicazione e di memoria condivisa.

Alcarras inizia sulla rimozione forzata e improvvisa del punto di vista di una bambina, Iris, che perde la propria prospettiva sulle cose (una macchina da cui guarda il mondo) e infatti corre dai propri genitori a chiedere aiuto. Il suo sguardo spiantato non sembra trovare sostegno in nessun membro della complessa e ricca famiglia di cui fa parte: i parenti sono più preoccupati a fare fronte all’imminente perdita dei terreni su cui lavorano, coltivando pesche, senza detenere alcun diritto contrattuale. La bambina cerca una continuità nello sguardo di suo padre, in quello di sua madre, in quello della sorella o del fratello, e in quello di zii e cuginetti più o meno presenti nel circuito familiare. Il film, per gran parte della sua durata, rende conto di questa frustrante sconnessione di sguardi moltiplicando sempre i punti di vista, squadernandosi in un continuo dipanarsi prospettico, almeno fino a quando Iris non trova conciliazione nello sguardo all’opposto anagrafico, l’unico altro sguardo ugualmente privato della propria prospettiva: quello del nonno Rogelio, che nessuno nella famiglia ascolta più e tutti invece criticano per non aver mai messo contratto la compravendita delle terre coltivabili che possono essere legittimamente riprese dai proprietari originari. Il nonno è con Iris l’altro protagonista del film, l’altra identità vacante, quella che, come la bambina, ha perso il punto di vista sul mondo e con esso la capacità di comprenderlo.

Tra lo sguardo che nasce cercando un punto di vista da cui guardare e lo sguardo che muore non capacitandosi dell’obsolescenza della propria prospettiva la regista, con una mossa di scrittura non da poco, riconosce un’identità, una continuità generazionale paradossale quanto il proprio fondo concettuale: siccome l’acquisizione di una prospettiva, la ricerca di un punto di vista sul mondo (lo sguardo di Iris), coincide e collassa con la perdita della propria patria, con la rimozione dalla propria terra d’origine (lo sguardo del nonno), l’identità familiare risulta essere per Simón non ciò che si forma nella direzione dell’avvenire più incerto, quanto ciò che vive nella tensione per il ritorno verso un luogo perduto che però è luogo di nascita. L’identità familiare pare insomma quel luogo utopico che non nasce nello scarto del passato ma si fonda sulla nostalgia per un’origine che non potendo essere raggiunta (Iris rimette in scena i ricordi del nonno senza averli vissuti) produce un destino di sconfitta e delusione, o più propriamente, un destino di sconfitta e delusione condivisi. Non a caso per Simón la compattezza identitaria della famiglia compare solo nella condivisione di quella sconfitta a cui si è destinati, nella socializzazione forzata o meno della perdita – nel finale tutti i personaggi si riconoscono come appartenenti a un unico nucleo quando tutte le soggettive sparpagliate lungo l’arco del film si compattano in un’unica linea prospettica che indica la disfatta annunciata.

Questa socializzazione è il collante discorsivo che permette a generazioni che non si parlano di superare i traumi, riconoscendo in ciò che li nega un movente abbastanza forte da fare dimenticare le differenze (e l’ultima immagine risolve in geometria questa dinamica, con una diagonale che sintetizza tutto il film). La continuità generazionale essenziale per superare i traumi collettivi (la scomparsa della memoria storica, l’alienazione del lavoro) non si pone però come una necessità data a prescindere, quanto piuttosto come una possibilità a cui avvicinarsi: il film tratta il presunto attributo della coralità non come un attributo romantico che si può vantare per principio a priori, bensì come un fittizio punto di conciliazione tra le generazioni, sempre strategicamente sospeso e rilanciato tramite il già citato funzionamento dispersivo delle soggettive, raggiungibile solo attraverso la realtà costruibile a piacimento del cinema. Simón crede che nel cinema l’identità familiare possa smentire il deludente capitombolo nella frammentazione individuale che rende impossibile confrontare i problemi sociali, quasi fosse, il cinema, l’esperimento sociale in grado di portare equilibrio tra individuo e collettivo. È in questo senso, forse, al di là di tutte le impressioni di realismo del caso, che si spiega la brillante operazione del film, ignota a chi vedrà il film senza paratesti: formare l’inesistente famiglia del film costruendo una famiglia di sconosciuti composta da attori non professionisti.