Docile – dal lat. docĭlis, der. di docēre ‘insegnare’ – è colui che è facilmente ammaestrabile. Colui che, pieghevole all’altrui potere educativo, si lascia calare dall’alto (di uno schermo cinematografico) una verità inappellabile. Una verità o una luce sacra, divina. Ma noi, del divino, francamente ce ne infischiamo. “Qui c’è troppa puzza di Dio!” urlava sornione un certo Carmelo Bene sul palcoscenico di un’ormai leggendaria puntata del Maurizio Costanzo Show. Qualcuno ricorda per caso un cineasta (italiano perlomeno) più indocile di Carmelo Bene? Io, sinceramente, no. Non credo sia esistita nella storia del cinema del Bel Paese un’altra voce – o phoné come l’avrebbe chiamata l’attore pugliese – capace di generare lo stesso anarchico lirismo di Nostra Signora dei Turchi (1968) o ancora quell’incendiaria cacofonia che è Capricci (1969). Uno contro tutti, questo il nome dato all’episodio evento in cui Bene, l’uno, è per l’appunto sguinzagliato a mo’ di despota nichilista contro quei tutti sì un po’ alleati un po’ oppositori, ma al contempo fedelissimi adepti. Ma Bene non ci sta. Per le due ore e mezza circa di spettacolo il mattatore rifiuta la sua stessa autorità e tenta di abbattere quella verticalità dialettica che lo spettacolo costanziano richiede. “Non voglio essere interrotto da chi mi rompe i coglioni con l’essere e con l’esserci, non voglio parlare con l’ontologia; abbasso l’ontologia, me ne strafotto: parli col Professor Heidegger, non con me! Parli con Heidegger e vada a fare in culo”.

Se questo tentativo di de-gerarchizzazione e condivisione orizzontale, apparentemente goliardico e iperbolico, esprime anche solo in parte l’essere indocili, allora la rassegna cinematografica organizzata dall’associazione culturale Tafano può fregiarsi a pieno diritto del proprio nome. La seconda stagione si chiude infatti con l’ultimo appuntamento di martedì 14 febbraio, tra le ormai mitologiche quanto informali chiacchiere da bar – moderate da un Davide Perego moderno Bene (quest’ultimo mi perdoni) e da, novità introdotta quest’anno per ogni serata, un co-conduttore nei panni di un giovane Maurizio Costanzo ad assistere cartella in mano la chiacchierata seguita dalla proiezione di cinque cortometraggi di giovani registe/i italiane/i. Il tutto prontamente trasmesso via etere dalla regia dell’instancabile Antonio Di Biase. Cinque lavori distanti per forma e contenuto ma capaci di legarsi trasversalmente l’uno con l’altro come ad esempio il primo tra questi: ¡Que viva (2019) della torinese Giulia Savorani, ibrido tra animazione e archivio metacinematografico [l’ultimo Ėjzenštejn di Que viva Mexico! (1931)], che vive della superficie bidimensionale della carta, di quella stessa bidimensionalità che informa Manuale di cinematografia per dilettanti – Vol. I (2022) di Federico Di Corato. Spazi piani che si fanno traiettoria tridimensionale tra storia personale e Storia di una nazione. Un’ubiquità spaziale e temporale che proietta tra Tallinn e Pescara l’intima adolescenza estiva di tre fratelli in L’acqua che non piove (2021) di Emanuele Cantó. Un’ubiquità, una spaccatura ancora, non più tra Estonia e Italia bensì tra la stretta provincia brianzola e la prospettiva futura di una Roma che si configura come spaccatura emotiva nel rapporto tra i tre personaggi di Letizia (2022) di Francesco Manzato. A chiudere il cerchio è il brakhagiano – non spaventi la totale assenza di suono nel momento in cui il montaggio è in grado di comporre sorprendenti musicalità visive – Asterión (2022) di Francesco Montagner, che ritorna alla tauromachia del film di Savorani servendosi però de La casa di Asterione di Jorge Luis Borges come armatura metaforica.

In attesa di un’eventuale e sperata terza edizione della rassegna meneghina organizzata in collaborazione con cinema Beltrade e rafforzata dal sostegno di Start e Filmidee, ci congediamo con una citazione che, seppur resa nota ai più grazie a un film non così indocile, riassume in sé quell’impeto vitale che ci si augura animi i sofferenti schermi del nuovo cinema italiano:

“Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare quando cade il giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.

Benché i saggi sappiano che la tenebra è inevitabile, visto che dalle loro azioni non scaturì alcun fulmine,
Non se ne vanno docili in quella buona notte,

Gli onesti, con l’ultima onda, gridando quanto fulgide le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.

Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono, imparando troppo tardi d’averne afflitto il percorso,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.

Gli austeri, in punto di morte, accorgendosi con vista cieca che gli occhi spenti potevano gioire e brillare come meteore,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.

E tu, padre mio, là sulla triste altura, ti prego, Condannami o benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose. Non andartene docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati contro il morire della luce.”

Dylan Thomas