Renato Berta, direttore della fotografia per registi come Straub, Rohmer, Rivette, Godard, Resnais, Chabrol e De Oliveira, presenta al 41° Bellaria Film Festival l’ultimo film di Philippe Garrel, Le Grand Chariot. Professionista sulla soglia degli ottant’anni, verrebbe da pensare a lui come vecchio maestro ormai arroccato nella fortezza delle proprie convinzioni. Berta si pone invece nella relazione col cinema in maniera giocosa e vitale, sempre disposta alla messa in discussione condivisa. Nell’angolo di un hotel sul lungomare romagnolo abbiamo attraversato con lui una carriera pluridecennale, costellata di incroci inaspettati, a volte mancati, alle altre portatori di alcuni dei più bei film della storia del cinema.

DP: Ieri dicevi che qui a Bellaria hai incontrato Vittorio De Seta. Puoi raccontarci un po’ del vostro rapporto?

RB: Non era la prima volta che lo incontravo e negli anni abbiamo avuto delle discussioni molto interessanti. Avrei dovuto fare un film con lui che per tutta una serie di motivi alla fine non ho fatto. Mi aveva infatti proposto di fare il film sulla scuola, con i ragazzi, come si chiamava?

DP: Diario di un maestro?

RB: Sì, Diario di un maestro. Purtroppo non ci siamo molto ben intesi su quel progetto. Era una persona torturata, molto torturata e nonostante l’abbia conosciuto molto bene non ho mai capito davvero nulla di lui. Si confrontava sempre con tutta una serie di problematiche pratiche, tecniche – era lui a operare la macchina da presa – che gli permettevano di avere un rapporto col reale e in realtà mi sono accorto che non lo aveva per niente. Non ho mai capito se sia stato io a ricevere i suoi input nella maniera sbagliata o se sia stato lui a trasmettermeli in maniera confusa.

DP: Diciamo quindi che De Seta è andato a unirsi a quel gruppo di autori con i quali c”è stato con te un progetto di film poi mai realizzato come ad esempio Fassbinder.

RB: Tre film! Son delle cose strane sai, i rapporti con i registi. Quando li incontri e trovi delle persone con le quali stai bene capisci che puoi scambiare idee stimolanti con loro. Nel caso di Rainer è stato un po’ diverso nella misura in cui lui mi ha proposto tre film di cui il primo era Rosa Luxemburg, ma proprio mentre stava ancora lavorando alla sceneggiatura è improvvisamente morto qualche mese dopo e il film non si è fatto, naturalmente. Nel caso di De Seta è stata più una questione di mancata sintonia. Nonostante ciò quando ci siamo rivisti qui a Bellaria mi ha fatto una grande dichiarazione di stima. Avevamo anche iniziato a girare dei provini ma le cose non andavano molto bene. Succedevano cose strane. Un giorno non avevamo ancora la pellicola per filmare, la stavamo aspettando e Vittorio chiama “motore, motore!” e gli rispondo “ma scusa Vittorio non c’è la pellicola” e lui “motore!!!”

DP: Sempre ieri hai citato un altro incontro molto importante per te avuto qui a Bellaria con l’attore Roberto De Francesco. Perché è stato così significativo?

RB: Perché c’era anzitutto una sintonia evidente su molte cose anche se non eravamo d’accordo su tutto. Si può essere sintonizzati sulle stesse lunghezze d’onda anche senza avere le stesse idee. A me gli attori interessano. Il loro lavoro, come stanno in scena e con lui abbiamo parlato spesso del ruolo dell’attore nel cinema. Lui come De Seta sono queste persone che durante tutta la vita un po’ incroci un po’ no. L’ho incrociato sull’ultimo film di Mario Martone. Trovo che Roberto sia proprio un attore con enormi potenzialità e una grande disponibilità. Peccato sia così sottovalutato.

DP: Fassbinder a parte abbiamo parlato finora soltato di registi o attori italiani ma come ben sappiamo tu hai sempre avuto un rapporto fortissimo con la Francia e con i suoi registi. Hai mai notato qualche macro differenza di metodo tra i registi italiani e quelli francesi?

RB: Decisamente e questa differenza è data dall’eredità della Nouvelle Vague. La generazione di francesi con i quali ho lavorato io è emersa a cavallo della Nouvelle Vague e bene o male ho incontrato un sacco di persone che sono state formate da quel movimento. E quel movimento era un movimento contro, contro le istituzioni, contro il sistema di fabbricazione dei film e le proposte di questo antagonismo si concretizzavano in cose estremamente pratiche. Una cosa verso la quale erano molto negativi era l’istituzione dei tecnici in Francia: gli attori, la pesantezza delle infrastrutture come i teatri di posa. Spesso c’erano dei conflitti con gli operatori dell’epoca e questa cosa è rimasta anche negli anni a venire. I nemici dei film erano i tecnici perché gli autori non potevano esprimersi attraverso delle persone così ottuse. In Italia è sempre stato diverso. Credo che in Italia la figura del tecnico sia un po’ più considerata e rispettata.

LS: Anche se hai lavorato con tantissimi registi diversi, in diversi momenti della loro carriera e della loro filmografia c’è sempre un momento quando guardo un film con la tua fotografia in cui mi dico “questa è di Renato Berta”. C’è una sorta di grafia che si percepisce anche se la tua luce si adatta in maniera differente per vari registi. I film di Martone hanno una luce diversa da quella di Frammartino però in qualche modo c’è una tua coerenza. Come si fa a costruire questa continuità fotografica molto personale e al contempo estremamente rispettosa e non invasiva.

RB: È molto difficile sbarazzarsi di tutta una serie di tic personali. A torto o a ragione certe cose rimangono. Penso che possano rimanere ma ti dirò che è qualcosa di percepibile molto di più con uno sguardo critico piuttosto che con la coscienza attraverso la quale fabbrico queste immagini.

LS: È un processo quasi inconscio.

RB: Non quasi, completamente. Non me ne rendo mai conto. Del resto a me non pare sia come dici tu. Dopo è chiaro che forse io sia sensibile su certe cose che si ripeto da un film all’altro. Certi principi. Preferisco che un viso non sia massacrato dalle luci. Non vedo perché si debbano filmare delle persone con delle luci orribili. Forse anche nella composizione dell’inquadratura è possibile vedere una qualche coerenza, forse. Passo sempre delle ore a comporre. Oggi non lo si fa più.

LS: Oggi, soprattutto negli USA, c’è l’idea del direttore della fotografia come star. Roger Deakins per citarne uno filma in maniera molto invasiva. L’ammirazione nei tuoi confronti dunque è anche data da un lavoro che si percepisce ma non si sente.

DP: A proposito dello stare ore a comporre l’inquadratura, lo scorso settembre durante la Naufragare Summer School hai fatto da guida a un gruppo di giovani filmmaker che si stavano approcciando per la prima volta al mezzo cinematografico. Com’è stato per te passare dal lavorare con grandi maestri del cinema mondiale a giovani esordienti?

RB: Ti dirò, io penso che non ci siano delle grandi differenze. Intendo cioè che quando ti confronti per la prima volta con un regista che non conosci e cerchi davvero di capirlo, di entrare nel suo universo, allora grande o piccolo regista che sia il problema che si pone è tutto sommato uguale. Devi cercare di capire in che maniera si possa arrivare a un certo risultato. Da una parte devi tenere conto che l’ultima parola è sempre del regista e se questo ha già un’idea precostituito allora ti limiti a rispettarla. Se invece il regista ricerca il confronto con te allora nasce la discussione e la discussione sia che tu la faccia con un principiante o con Alain Resnais non ha enormi differenze. Per esempio sono sempre rimasto molto critico rispetto a quelle persone che dicono di aver lavorato con tale regista perché “sa quello che vuole”. Nessun regista sa quello che vuole. Ma lo dico in maniera positiva perché un regista deve sempre comporre con la realtà.

DP: E parlando di registi che sanno ciò che vogliono, qui a Bellaria hai presentato l’ultimo film di Philippe Garrel del quale hai curato la direzione della fotografia, realizzata a colori dopo le quattro pellicole precedenti in bianco e nero. Raccontavi di questa differenza d’approccio di Garrel e di conseguenza del tuo approccio tra colore e bianco e nero. Ce ne parli un po’?

RB: Se mi si propone un film e la prima cosa che mi si dice è che si giri a colori allora cosa vuoi che ti dica? (ndr ride) Se invece il colore è il risultato di una certa esigenza, domanda, interrogazione allora lì si partecipa al dialogo creativo. Ovvio, ci sono tutta una serie di differenze a livello tecnico di cui bisogna tener conto, ma sono secondarie.

DP: Da come ne parli sembra che l’importante non sia tanto la scelta a priori del filmare in un metodo o nell’altro quanto più il risultato che si raggiunge quando si ragiona a colori o in bianco e nero perché ecco, sono due modi di pensare al reale molto diversi che portano altrettanti risultati.

LS: Stamattina si è parlato del passaggio tra pellicola e digitale e di quanto sia stato problematico. Volevo chiederti come tu l’abbia vissuto, di quali siano per te le potenzialità del mezzo digitale e quali le problematiche. Avevo letto che tu hai parlato di un pericolo dell’ideologia digitale.

RB: Quando intendo ideologia del digitale non intendo il digitale del cinema. Dico che il digitale produce ideologia perché checché se ne dica ti ribalta completamente il pensiero, il ragionamento dietro alle riprese. Credo sia qualcosa di legato al sistema binario: zero e uno. Tu oggi passi delle ore al computer dove le uniche risposte che puoi dare sono o sì o no. Ti piace il mio film o non ti piace? Come diavolo si fa a parlare di un film in questi termini? Bisognerebbe parlarne dallo zero all’infinito. Purtroppo ormai tantissime cose sono così. Considero il digitale nel cinema niente più che un supporto. Ci sono delle eccezioni però per le quali il digitale è sfruttato in maniera innovativa come fa ad esempio Nicolas Philibert.

LS: Certo se il digitale viene legittimato da un’idea…

RB: Ma perché Philibert arriva al digitale, non è il digitale che arriva a lui. In questo senso sono sempre stato attento a capire l’operazione che sta alla base del processo.

LS: E lavorare con Michelangelo Frammartino ne Il buco in che modo ti ha arricchito? In che modo ti ha permesso di esplorare le potenzialità del digitale?

RB: Il nero è la cosa più difficile da riprodurre perché il nero è in contraddizione con la luce. Un nero lo proietti con la luce e vien da sé che queste due cose entrino in conflitto. Il nero lo puoi vedere e apprezzare solo nel confronto con altre densità. Il nero lo vedi bene in contrasto. È difficile apprezzare un nero da solo. Nel momento in cui abbiamo deciso di girare in digitale l’elemento veramente importante era il sistema di luci diegetiche che abbiamo utilizzato e cioè i frontalini degli speleologi. Ma il nero che illuminavano non era un nero convenzionale. Nel cinema il nero assoluto, così come la notte, non esistono. Vedi sempre qualcosa. È rarissimo avere il nero assoluto se non aldilà dello schermo. Ed è così che ci siamo detti di provare a trattare il campo come fosse fuori-campo. Abbiano così ottenuto un campo nero che si modifica allo spostarsi dei frontali degli esploratori. Il mio lavoro è consistito soltanto nel registrare tutto quel che c’era aldilà del nero

DP: Mi sembra di capire che ci sia stata un po’ un’inversione d’approccio rispetto a come si lavora di solito. Di solito si parte a ragionare sulla luce mentre in questo caso avete ragionato partendo dal nero.

RB: È esattamente ciò che trovo interessante di questo film. Prima che entrassero in grotta (io sono sempre rimasto fuori al monitor) avevamo ragionato partendo dalla luce. Dopo aver esplorato l’Abisso del Bifurto abbiamo completamente cambiato approccio.

DP: E nel contemporaneo noti che il digitale sia sfruttato in maniera interessante o no?

RB: È sfruttato tecnicamente. Non ci sono delle cose veramente sorprendenti… cioè, aspetta, io non è che conosco tutte le immagini che vengono create oggigiorno anche perché sono troppe. Trovo che si sia vittime di questa normalizzazione. Ci si adegua. Per me ad esempio non c’è molta differenza tra pellicola e digitale, anzi, credo vadano nella stessa direzione. Quando cerchi certe densità di contrasto dell’immagine è più facile in digitale perché c’è una larghissima gamma di possibilità. Attenzione però perché non voglio dire che le cose facili siano anche quelle più meritevoli. Per esempio nel film di Garrel sapevo benissimo che girando in pellicola lui avrebbe voluto la stampa. Abbiamo fatto la stampa di tutto il film per cui te le vedi una volta in 35mm. Le vedi in proiezione e via. Oggi è molto difficile girare in pellicola e le pellicole per la stampa dal negativo non vengono più prodotte. Esistono le pellicole che stampi dall’intermediato digitale per cui la qualità è molto diversa se tu stampi dal negativo originale. Hai contrasti fortissimi, tutta una gamma di neri te la perdi e quando vedi il positivo rimani basito anche se sai che poi quando vai in digitale tutte queste cose le recuperi perché nel negativo sono presenti.

DP: Prima si è parlato della scomparsa di Fassbinder e nell’ultimo anno morti tre importanti registi con i quali tu hai collaborato nel corso della tua carriera come Godard, Tanner e Straub. Come la scomparsa di questi professionisti, in certi casi di amici ai quali eri legato, ha influenzato le modalità con le quali ti approcci al cinema, alla fotografia, alla luce in generale? Perché quando si parla di luce alla fin fine si parla di qualcosa di vitale, e quando la vita viene meno allora anche una luce viene meno.

RB: È difficile rispondere a una domanda così. A livello umano e personale sono stati eventi molto duri da digerire. Non è mai facile affrontare la scomparsa di una persona. Alain Tanner lo conoscevo benissimo, Straub anche. Godard non molto, è sempre stata una persona complicata. Non posso tracciare una linea diretta che colleghi la luminosità di queste persone alla luce con la quale lavoro, ma non posso negare che a livello inconscio ci sia uno stretto legame che unisce le due cose. Il legame con un regista col quale lavori alla fine non si riduce mai solo al film che giri. I professionisti sono freddi e io non mi riconosco nel professionismo. I rapporti continuano ben oltre la luce con cui lavoro. Resnais ad esempio l’ho visto una settimana prima che scomparisse perché ci frequentavamo spesso e forse la luce che si poteva vedere era quella tra di noi. Il mio lavoro è sempre il risultato di un dialogo, di due luci che si incontrano. Fare un film non è mai un processo cosciente. Nessun regista sa mai davvero quando il film è finito o no.

DP: Dato che siamo a Bellaria queste tue parole mi portano alla mente una notte di Fuori Orario nella quale Enrico Ghezzi diceva che non avrebbe mai potuto fare il regista perché non sarebbe mai riuscito a dare lo stop a una ripresa. Per lui la ripresa avrebbe dovuto essere virtualmente infinita. Qualcosa che va totalmente in contrasto con quanto dovrebbe fare un regista, ovvero circoscrivere, catturare…

RB: Spezzare! In dati momenti della tua vita sei costretto a spezzare. Quando prendi delle decisioni spezzi. Tu l’hai visto il suo film?

DP: Gli ultimi giorni dell’umanità? Sì.

RB: “Farò un film!” Panoramica su Marco Melani, “Sì, un film si può fare, ma si può anche non fare.” In questo senso Enrico non può dare lo stop perché, aggiungo io: “Si può dare lo stop ma si può anche non dare.” Enrico è sempre stato così. La sua forza è stata l’indefinitezza delle sue idee.

LS: Tutto può essere il contrario di tutto!

DP: E per te Renato? Si può fare o si può anche non fare?

RB: Sì sì, si può fare! Ma si può anche non fare (ndr ride).