Non sappiamo veramente di cosa siamo fatti finché non siamo distrutti.
Ma ci rialziamo sempre come vedi,
anche se perdere così tante persone care è come morire mille volte.
Lasciatemi credere che un “Arrivederci” non possa mai separarci,
e ripartiamo senza che il tempo ci ripari.
Morire mille volte.

Le parole della canzone di Youssoupha (Mourir mille fois) giungono alla fine, come una sorta di preghiera che sigilla, ribadendone la coralità, l’ultimo film di Agnieszka Holland, Zielona granica (The Green Border), Premio speciale della giuria a Venezia 80. Sullo sterminato confine boschivo che separa Bielorussia e Polonia è in corso una crisi che vede migliaia di migranti, in gran parte provenienti da Medio Oriente, Asia e Africa, bloccati mentre cercano di resistere alle avversità della natura e alla violenza delle guardie di frontiera, nel disperato tentativo di raggiungere l’Europa. La comparsa di un brano cantato nel film, che presenta per tutta la sua durata un commento drammaticamente muto, crea una corrispondenza con la scena di un’altra opera in concorso, Io capitano di Matteo Garrone, che pur con la medesima volontà di farsi portatrice delle istanze di chi non ha voce non potrebbe strutturarsi in maniera più diversa. Il film racconta l’epopea di due giovani senegalesi che disubbidiscono al volere della famiglia per partire di nascosto e raggiungere l’Italia, idealizzata attraverso il mondo dei social. Seydou e Moussa sognano di diventare musicisti, e dalle canzoni che scrivono sembra scaturire idealmente la fitta colonna sonora del film. In una scena della prima parte si esibiscono davanti agli amici, come in una prefigurazione sognata del futuro da artisti, e il brano che cantano, costruito goliardicamente a partire da una frase qualunque pronunciata dalla madre di Seyodu, è un inno all’amore, permeato da una gioia evasiva che si fa combustibile per alimentare la decisione di partire dei due ragazzi. Nel film di Holland, invece, tre giovani migranti africani, salvati dalla morte nelle foreste, si uniscono ai coetanei polacchi della famiglia che li ospita in un atto catartico. I giovani intonano all’unisono un testo in cui risuona la tragedia umanitaria che si consuma da anni sui confini europei, mentre i primi piani sui loro volti, profughi e ospitanti, connettono il dolore delle vittime alle responsabilità di una collettività che osserva immobile. Ed è su questa scala che si misura la grande distanza tra i due lavori: Garrone sceglie di adottare la prospettiva dei due protagonisti adolescenti raccontando il loro viaggio, spesso escludendo o diluendo nel fiabesco una dimensione politica e storicizzante (non a caso la scelta del bianco e nero in Zielona granica, contrapposto alle tinte vivide e calde di Io capitano), dalla quale il film di Holland è inscindibile.

L’immagine di un bosco immenso e dalle chiome verdeggianti inizia lentamente a scolorire, come se il passaggio dell’occhio dello spettatore sulle cime degli alberi li facesse morire piano, sprofondandoli in un eterno bianco e nero. A sorvolare la foresta è un aereo di linea sul quale si riposano ignari i membri di una famiglia siriana, primo personaggio di questo film-corpo in cui ognuno dei capitoli porta il nome delle singole storie e realtà interconnesse, che agiscono e reagiscono attorno alla medesima tragedia. Una famiglia siriana, una guardia polacca, un gruppo di attivisti, una psicologa residente vicino al confine che decide di votarsi alla causa umanitaria. Teatro oscuro del dramma di Holland, e dell’Europa tutta, è un luogo che già appare inospitale a esseri umani consapevoli e attrezzati, e che si trasforma in trappola mortale per chi, come la famiglia siriana, tutto si aspetta tranne che di finirvi intrappolato, sballottato da una parte all’altra del confine come in un gioco subdolo da militari indottrinati all’odio e alla xenofobia, che ignorano richieste di asilo e assistenza medica, liberi di perpetrare abusi nel buio della foresta. L’inaccessibilità della Zona ha garantito un silenzio mediatico nel quale ha proliferato ogni forma di violenza, e il “confine verde” si è fatto territorio di caccia, prigione e cimitero. La forza del film, che pur non rinuncia a un certo didascalismo nell’ultima parte dedicata agli attivisti e alla collaborazione della psicologa, è quella di articolare un discorso intrinsecamente politico con un linguaggio in grado di tutelare la dignità dei corpi senza essere estetizzante, di raccontare l’atrocità senza renderla pornografica, lavorando sapientemente sulla distanza per incrociare toni da reportage alla drammatizzazione pura. Una scena di grande potenza è quella in cui, riuniti intorno a un’attivista polacca, un gruppo di migranti cerca di capire cosa stia dicendo. La donna sta rivelando informazioni fondamentali che riguardano la possibilità di chiedere asilo e l’eventualità che tale richiesta venga respinta con conseguente (e per alcuni ennesimo) ri-espatrio in Bielorussia. Mentre lei parla in polacco, un uomo traduce in arabo, chi capisce l’arabo prova a tradurre in inglese, in francese o nella lingua che conosce per il proprio vicino, creando una catena linguistica che Holland tutela ponendo tutte le voci alla medesima intensità, tutti le figure a fuoco in profondità di campo, ritraendo un unico corpo che vibra della stessa, disperata, richiesta di aiuto.

L’aperta denuncia della crisi geopolitica fomentata dal presidente della Bielorussia e votata alla strumentalizzazione delle vite dei profughi, venduti dalla propaganda polacca come “armi di Lukashenko” da rimandare al mittente, si articola in una violenta critica al corpo militare polacco e all’emergere dei nuovi fascismi, che è già costata alla regista un attacco personale e aggressivo da parte del ministro della giustizia. Ma il vero colpo di Holland è sferrato sul finale quando, dopo più di due ore trascorse all’insegna del costante e intransigente respingimento di uomini, donne e bambini, un salto temporale ci riporta allo scoppio della guerra e all’accoglienza di migliaia di profughi ucraini entro i confini polacchi. Il dolore sui loro volti è il medesimo, né più né meno legittimo di quello dei richiedenti asilo che, sfortunatamente, provengono dall’angolo di mondo sbagliato. Mentre si illumina l’ipocrisia europea e la surreale politicizzazione dell’aiuto umanitario, le vite continuano a spegnersi nelle paludi del “confine verde” e su tutti gli altri confini migratori del pianeta, e il film si chiede come, a dispetto di un sentimento di impotenza e alterità verso qualcosa che appare troppo violento e distante, la morale del singolo possa, e debba, fare la differenza.