La forestiera appena trasferita che emerge, appena visibile, dal bel mezzo di un campo lunghissimo (il solito, semideserto paesaggio del Nord della Francia che ormai è un po’ la Monument Valley di Bruno Dumont); l’autoctono che al contrario arriva dal mare, con una barchetta che poi trascinerà verso casa con un trattore. Il loro incontro, e ciò che ne segue, fa presagire che stavolta Dumont intende buttarsi a capofitto nell’identità tra l’identità e la differenza, che non cessano di rovesciarsi dialetticamente: ciò che al cinema è John Ford ad avere messo in immagini in maniera definitivamente insuperabile. Anche perché Dumont stavolta sembra puntare più alto del solito nell’integrazione tra azione e paesaggio: lo si nota nell’ispirazione fordiana di molte inquadrature, in un giardino bizzarramente recintato, nel modo in cui le rive e le dune contrastano con le architetture dei caseggiati residenziali, e in molti esempi simili.

Fordiano è l’assunto di fondo: l’Impero non fa in tempo a costituirsi che è già scisso in due. Sono due, infatti, gli imperi extraterrestri che si fronteggiano per interposti ultracorpi umani, in incognito nel sonnolento e semisottosviluppato Pas-de-Calais rurale. Si chiamano “0” e “1”, perché il presente è digitale, ma attraverso di esso, e grazie agli effetti speciali che rende possibile, il sincretismo di Guerre Stellari viene distolto dal guardare in avanti (verso, cioè, il Signore degli Anelli) e portato invece a guardare indietro verso John Ford, ma solo affinché quest’ultimo a propria volta guardi indietro e, per così dire, a Est (dell’Irlanda), perché ancor prima che gli Stati Uniti diventino un impero, è l’Europa ad essere nata scindendosi in due, in una Guerra dei Trent’Anni che non è mai terminata, e che va avanti ancora oggi. Le due astronavi che fanno da quartier generale dei due imperi sono, anche, una cattedrale gotica in un caso e la Reggia di Caserta nell’altro: non si tratta dunque di “bene” e “male” (anche se il film lo lascia credere affinché lo spettatore possa comunque contare su un appiglio interpretativo facile e immediato), ma di un Cristianesimo eternamente settentrionale e di uno eternamente meridionale; un mondo radicato in una Riforma protestante nata dalla fisiologica autodistruzione dell’ideale gotico e che fonderà, guardando al mondo anglosassone (del resto, di là da Calais c’è l’Inghilterra) un’etica puritana fino all’eugenetica, contro un mondo barocco e neoclassico figlio della Controriforma, sensuale e mediterraneo, avvezzo al peccato come condizione indispensabile di una salvezza che coincide con l’insalvabile, cioè con l’umano.

Ricostruendo gli strati di questa “memoria marittima e sedimentaria” (è la frase pronunciata da Fabrice Luchini, umile guida turistica, prima che le forze del male lo facciano diventare Belzebù) che è l’Europa, anche oggi nulla più del cascame di una frattura vecchia secoli, Dumont tenta di realizzare il suo film definitivo, quello che riprenda e redima le sue due opere meno riuscite (Hors Satan, Coincoin et les Z’inhumains) con un disegno al contempo antropologico e religioso, ovvero fordiano, nel quale le strutture elementari della parentela si combinano e chiudono aprendosi verso il cielo e trovando in esso le medesime spaccature di quaggiù. Purtroppo e per fortuna, Dumont è troppo intimamente impregnato di teologia per non rimanere attaccato alla consapevolezza che la redenzione vera coincide con la Caduta, e che se l’umano si salva solo nel divino, quest’ultimo si salva solo attraverso le imperfezioni dell’umano.

Quindi no, il capolavoro fordiano non riesce a Dumont, e forse è meglio così. Imperfettamente, umanamente, Dumont rimane troppo nostalgico delle libertà garantitegli dalla forma seriale, con quei personaggi (il sindaco) che vengono creati d’un tratto per poi sparire dopo dieci minuti e non venire mai più ripresi, e dunque la struttura del suo film manca la quadratura del cerchio fordiana tra equilibrio e squilibrio. Trucca le carte e spaccia per sviluppo ciò che in realtà non è che esposizione della premessa (e cioè dell’effettivamente geniale allegoria fantascientifica) segmentandone le ramificazioni ed implicazioni e spalmandole per metà film, annunciando un’azione che viene costantemente rinviata, e che quando c’è risolve il teorema di partenza nel modo, ahinoi, più banale possibile, ovviamente spiattellandolo in modo didascalicamente dottrinale (che poi è sempre il pregio di Dumont oltre che il suo limite ma stavolta senza contrappesi che lo risollevino): gli opposti si annullano e noi, in Europa, siamo tuttora l’ammasso di detriti che da questa catastrofe permanente che mulina da secoli schizza fuori, inspiegabilmente residuali e quindi a proprio modo divini, sublimi e quindi ridicoli.

Nel mancato comporsi tra equilibrio e squilibrio c’è però un elemento che non è semplicemente e solo fuori posto, poiché lungo il film si trasforma in un enigma su cui soffermare lo sguardo, e che forse indica utopicamente una via d’uscita dal soffocante sistema di opposti che si attraggono e si annullano nel film. È la forestiera che si accennava all’inizio, punto interrogativo (perché colei la cui possibile unione con l’autoctono veniva all’inizio velatamente allusa come speranza di redenzione dell’umanità, viene in seguito regredita a saltuario comic relief senza colpo ferire?) che forse vale più degli assertivi punti esclamativi di cui è cosparso il film. Se la deformità è il destino inevitabile di un’Europa che non può non essere schiacciata tra due fuochi (Nord e Sud), la forestiera finisce per incarnare certo la distanza derisoria che da quella deformità non si può non tenere, ma la sua non è solo distanza. Più che nel solito catechismo dumontiano, L’empire va cercato nei limiti in cui non può non incappare questa ancorché inevitabile derisione. Questione di tono (mai troppo serio mai troppo faceto), questione di tendenza alla contemplazione delle imperfezioni che sono immediati segni del Sacro (da sempre, la cinepresa di Dumont indulge nella tentazione di fermarsi sempre un attimo di troppo a guardare ciò che c’è anziché far proseguire la storia, perché nulla di esistente può non dirsi un miracolo), ma anche questione di direzione degli attori. Il lavoro di Dumont con Brandon Vlieghe, interprete non professionista dell’autoctono, è probabilmente tra i vertici della sua intera carriera: esempio rarissimo in cui la deformità non viene solo oggettivamente messa a distanza, ma soggettivamente appropriata dall’attore che la incarna, che la rivendica, che ci crede, che ce ne fa credere.