C’è uno scarto tra quest’ultimo film diretto da Roberto Minervini e i precedenti, è vero, ma non è relativo alla differenza tra finzione e documentario, divisione settaria da sempre rifiutata da questo cineasta (così come da altri, come Michelangelo Frammartino, Alice Rohrwacher, Pietro Marcello e Alessandro Comodin). Il cinema è da sempre mosso dal paradosso abitante tra reale e costruito, si sa ed è ormai abbastanza inutile ripeterlo. Questo scarto riguarda invece un filo sottile, che Minervini durante la scrittura dei suoi film (spesso portata avanti con i personaggi dell’opera stessa, come in questo caso) tende fino a creare un confine più o meno ampio tra l’atto del filmare e ciò che viene filmato. Se in Lousiana e What You Gonna Do When the World Is on Fire questo confine si sposta spesso verso il filmato, e in Stop the Pounding Heart il filmare invece prende il sopravvento, fino a diventare esso stesso narrazione, in I dannati la premesse sono invece quelle di scegliere coscientemente di chiudere un ciclo, storico, politico, sociale e quindi, a una prima osservazione, prettamente contenutistico, aprendo dall’interno la contro-storia statunitense e risalendo alla sua origine, narrando forse l’evento più politico del cinema di Minervini, perché fondativo di tutti gli altri: la guerra civile, ossia quella ferita apertissima che ancora oggi si nutre dello iato tra nord e sud, in un continente che fa della contraddizione classista il suo polo identitario maggiore. Ma nonostante si parta da questi presupposti agiograficamente storici, quantomeno in apparenza, l’afflato in I dannati è tutt’altro che votato a un ritirarsi dell’atto di creazione dell’immagine: compiendo un giro completo, il film tra quelli di Minervini diventa il più votato all’etereo, al sospeso, a quel senso beckettiano di universo che sa di basarsi sulla trascendenza ma che sceglie di dirsi e farsi immanente a se stesso, preferendo un senso di relazione, di connessioni, piuttosto che di un significato impresso al racconto.

È tra il nulla e l’addio, come nel finale di Million Dollar Baby, che questi uomini si immergono nella neve che imbianca le barbe ispide e i tessuti blu dell’esercito nordista, che lavano dal sangue l’unica camicia che possiedono, che aspettano ore interminabili sorseggiando del pessimo caffè, che si trasformano in materia, che diventano natura, partendo da ciò che di meno naturale esiste: la guerra. In fin dei conti è sempre di questo divenire paradossale che si è nutrito questo tipo di cinema del reale, basilarmente perché l’intento per questo genere di cineasti è di andare a individuare la parte più pura, e quindi archetipicamente più contraddittoria, di un film: il negare se stesso per affermarsi nella propria poetica, sentire il postmoderno per poi rifiutarlo attraverso la semplicità e la naturalezza, e soprattutto affermare che il cinema è l’atto stesso dell’imbracciare una cinepresa, del tendere un microfono, del comporre un’inquadratura. Forse è perché nel suo mutare e nel suo diventare povera l’industria cinematografica italiana recente ha formato dei registi che ai loro inizi riuscivano a gestire più ruoli su set improvvisati, che questi stessi registi hanno incorporato nella fisicità delle riprese il loro punto focale maggiore, ed è per questo che su questo approdo della filmografia di Minervini la fotografia (intesa qui proprio come cinematography), per esempio, riesce a diventare tessuto polivalente (non è un caso che il d.o.p. Carlos Alfonso Corral sia anche il compositore della colonna sonora), che l’anticlimaticità del racconto, sicuramente tendente al cinema di Malick, ma anche e soprattutto a un certo cinema italiano contemporaneo, quello dell’ “invenzione del reale” per intenderci, muti e acquisisca le tracce del politico e del poetico allo stesso tempo, permettendo a un concetto di rimbalzare tra due estremi che tuttavia riescono a non negare se stessi. Anche in questo senso la continuità con i film precedenti – a cominciare dal coinvolgimento di alcuni attori che erano anche presenti proprio in quel Stop the Pounding Heart che aveva in nuce questo dualismo oggetto-soggetto, filmato-filmare – si fa sia sociologicamente che immanentemente, per appunto accompagnarci verso quel senso più primitivo dell’immagine in grado di accomunarci, come esseri umani, a tutto il vivibile, nell’amore e nell’orrore, nella guerra e nella pace, nell’immagine e nel racconto, nella Storia e nel mito.

Proteggiamo questo cinema, così prezioso e fragile, così sottile e limpido, tuteliamolo da questo mondo che più diventa complesso, più fa fatica a dirsi tale. Proteggiamo il cinema di Roberto Minervini.