– Bonjour, hi.

– Hi.

– First time here?

– Yeah.

– I’ll get Alex to give you a little tour of the cinema. Wait one sec… Okay, he’s waiting for you upstairs.

La cassiera mostra qualche anno meno di noi. Sorride più che per cortesia. Dietro di lei, una parete ordinata di snack, lattine, contenitori di popcorn e, in cima, un tipico cartello da diner con i prezzi. Dietro di noi, una parete di DVD, un paio di espositori girevoli e, in cima, una serie di fotografie della sala alternate a cartelloni pubblicitari mai visti prima in giro. Una lattina costa due dollari, un DVD tra venti e trenta.

La storia di una sala cinematografica è anche la storia di un quartiere, a volte soltanto di una via. A metà degli anni Dieci del novecento, la popolazione ebraica di Montreal ammonta a trentamila abitanti. Il Boulevard Saint Laurent (il Main per gli anglofoni) è, a quel tempo e per pochi decenni a venire, il cuore della comunità: classe operaia, per lo più, cacciata dagli shtetlekh dell’Europa dell’Est dalla fame e dai pogrom. Il quartiere è decisamente povero e vivace. Gli ebrei che ce l’hanno fatta vivono altrove e parlano inglese. Lungo il Main invece si parla soltanto yiddish. Mordechai Richler, il cantore della Montreal ebraica, racconta quasi mezzo secolo dopo che la strada puzzava d’aglio, di liti e di addetti al recupero crediti. Un altro mezzo secolo dopo il quartiere è decisamente hipster e vivace. Tra i pochi segni del tempo passato spicca Schwartz’s, il deli oggi di proprietà di Céline Dion che ha inventato il Montreal-style smoked meat. La fila d’attesa inizia di fronte alla vetrina di una boutique affollata di calzini con le facce di Marylin Monroe, Adam West (in Batman) e Magic Johnson. Di fronte svetta l’insegna dell’Ex-Centris, “laboratorio di creazione e diffusione digitale”, fondato da Daniel Langlois dopo l’avventura della Softimage, la società di effetti speciali a cui si devono, tra gli altri, Jurassic Park, Titanic e Matrix. Il primo ha dichiarato bancarotta l’anno scorso, la seconda è stata rilevata Microsoft e poi venduta ad Amid e Langlois si è dato al mecenatismo. L’industria del videogame, che ingloba i settori “cinematografici” degli effetti speciali e dell’animazione, traina l’economia della città e i suoi impiegati hanno rimpiazzato le comunità etniche del Plateau, di Mile End e di Little Italy.

Schiacciati lungo l’asse che separa la popolazione francese (proletaria e cattolica) da quella inglese (borghese e protestante), ignorati dalle istituzioni cittadine, svantaggiati da politiche discriminatorie e da una limitata capacità di integrazione, gli ebrei di Montreal vivono al limite della società canadese. L’industria tessile (schmata business) e il commercio al dettaglio ne costituiscono le principali fonti di sostentamento. L’isolamento della comunità produce una forte coesione sociale: un network di istituzioni educative e filantropiche rimedia all’assenza dei servizi sociali, varie espressioni della militanza (tendenzialmente di sinistra radicale) fungono da collante politico e, cosa più importante per noi, sul piano culturale si mettono all’opera tutta una serie di imprese per mantenere viva la cultura yiddish. Un quotidiano moderato in yiddish, “Keneder Adler” (l’aquila canadese), viene pubblicato a pochi passi da Duluth Street dal 1907 e darà in seguito vita a un impero editoriale. Lì giorno dopo giorno si riportano notizie dettagliate di ogni sorta di attività della comunità, incluse quelle amatoriali. La comunità letterata si riunisce attorno alla Jewish Public Library. La scena teatrale yiddish è considerata la terza al mondo per dimensioni dopo quelle di Varsavia e di New York. È spesso un teatro concepito per la classe operaia, privo di funzioni didattiche e di produzioni originali, e tuttavia di successo. Per chi cerca intrattenimento ancora più popolare, il quartiere è ricco di teatrini specializzati in spettacoli di varietà, vaudeville e proiezioni cinematografiche. Uno di questi è il Globe, fondato nel 1914. Non un teatrino, decisamente.

Superiamo un cordone rosso. Tre strette rampe di scale, la cabina di proiezione tra la prima e la seconda. Alex, un quarantenne longilineo di origine asiatica affetto da una leggera forma di strabismo, ci accoglie freddamente. Per prima cosa ci indica il bagno.

La vista della sala ci coglie di sorpresa. Alex ci dà qualche minuto per guardarci attorno. La struttura è ancora quella di un secolo fa: il soffitto affrescato, la galleria a ferro di cavallo con due palchi ai lati dello schermo, colonne e decorazioni a motivi floreali, il palco incorniciato da stucchi neoclassici. Compartimentato tramite separée laterali e tende pesanti, il loggione è una successione di piccoli cubicoli con due sedie. Una coppia occupa uno dei cubicoli. Nell’ordine inferiore della galleria sono allineate sedie di varia fattura. In quello che sarebbe dovuto essere il palco reale troneggia un divano blu abbastanza malconcio. La meraviglia lascia presto il passo a un tiepido senso di decadenza e d’improvviso non ci riesce di vedere nient’altro che le pitture scrostate del soffitto, le sedie traballanti, il braccio meccanico che dal centro della galleria si stiracchia fino a oltre metà sala. Catturati dal teatro, ci lasciamo appena distrarre dalle immagini sullo schermo, troppo distante. La decadenza abita anche quelle: la bassa definizione di un DVD impastata con la luminosità di una lampada per proiettore consumata dagli anni.

Alex ci sconsiglia di scendere in platea. Per una prima volta, dice, i privé sono meglio, si sta tranquilli. Sotto è affollato, aggiunge. Prende una pausa. Non è carino, conclude.

Dal bordo inferiore dello schermo intravediamo due uomini che ci fissano, immobili. Ci spostiamo su un lato del ferro di cavallo e ci sporgiamo per vedere la folla sotto di noi. Sei spettatori dall’aria annoiata stanno seduti a distanza l’uno dall’altro, tre o quattro stanno in piedi ai lati o passeggiano svogliatamente, i due sotto lo schermo continuano a fissare il centro del loggione – capiamo che non eravamo noi a interessarli.

Finito il giro, torniamo alla cassa.

Della vita del Globe non rimangono molte notizie. La sala si confonde con le decine che popolano il Main, tutte yiddish. Tre compagnie regolari percorrono i teatri yiddish della città nel 1914. Le première sono ospitate al Monument Nationale, una delle meraviglie architettoniche della città con la sua facciata neo-rinascimentale in acciaio, nonché il più antico teatro della provincia. Condiviso dalla comunità ebraica e da quella francofona, il teatro è una tappa obbligata per le grandi produzioni newyorchesi e per i concerti delle star francesi. Le produzioni yiddish più modeste rimbalzano tra un teatro e un altro, sempre all’interno del quartiere. Il Globe, come gran parte dei suoi concorrenti, alterna spettacoli di vaudeville a proiezioni cinematografiche, in yiddish e più raramente in inglese. Storicamente, cinema e teatro yiddish si muovono di pari passo anche sul piano dei modi di produzione e di consumo, pratiche che si nutrono l’uno dell’altro e che, a loro volta, vivono di debiti con la letteratura. Già prima dei classici Der Dibuk (Michael Waszynski, 1937), Tevye (Maurice Schwart 1939) e Fischke der Krumer (Edgar G. Ulmer, 1938), il cinema yiddish annovera una consistente produzione muta e sporadici tentativi finalizzati allo stabilimento di una vera e propria industria che vedrà qualche esito maggiore soltanto negli Stati Uniti degli anni Trenta e Quaranta.

Nel 1927 un nuovo regolamento provinciale in materia di spettacoli dal vivo obbliga tutti i proprietari di cine-teatri di Montreal a scegliere a quale delle due attività rinunciare. Il gennaio di quell’anno un incendio causato da un mozzicone di sigaretta uccide settantotto bambini. Si proiettava Get ‘Em Young (il corto che avrebbe dovuto sancire il grande inizio del sodalizio artistico di Stan Laurel e Oliver Hardy, rimandato a causa di un infortunio subito da Ollio: crudele ironia della sorte, un’ustione). La tragedia dà avvio a una campagna stampa, supportata dalle frange più conservatrici di una provincia al tempo socialmente arretrata, a favore della “sicurezza morale e materiale” delle sale. La chiesa domanda la chiusura delle sale nei giorni festivi: la proposta viene rigettata. Si approva invece che le sale siano adibite esclusivamente a proiezioni cinematografiche e dotate di un numero di uscite di sicurezza proporzionale al numero di posti a sedere. La commissione di censura adotta un codice etico talmente rigido che il 30% dei film distribuiti arriva in sala mutilato. La stessa commissione è ora incaricata di approvare locandine e inserti pubblicitari. Si delibera anche il divieto tassativo di ingresso in sala ai minori di anni sedici. Quest’ultima misura sarà abrogata soltanto nel 1961: due generazioni nel frattempo sono cresciute senza cinema. Ha inizio l’era che le storie locali chiamano la “Grande Noirceur” (il grande buio).

Il Globe, pur mantenendo la gestione, diventa un cinema a tempo pieno e cambia nome in Hollywood. Per la prima volta i film in inglese superano quelli in yiddish.

Con un biglietto abbiamo accesso illimitato alla sala per tutto il giorno. Per il loggione è quaranta dollari, undici per la platea. Per noi sotto è gratis perché è giovedì, ci informa la cassiera. Prima di lasciarci entrare, un’altra raccomandazione: sedete nell’area delimitata dai cordoni. Prende una pausa. È più carino, aggiunge. Un’altra pausa. Nessuno dovrebbe sedervi sulle ginocchia.

Nel 1959 Maurice Duplessis, il dio del grande buio, muore nell’esercizio del suo quinto mandato da premier del governo provinciale del Québec. Il governo liberale che succede al quarto di secolo di oscurantismo dà inizio alla cosiddetta “Révolution tranquille”, essenzialmente un tentativo di riagganciare il Québec al resto dell’Occidente: secolarizzazione, stato sociale, istruzione e sanità pubblica, nazionalizzazione dell’energia elettrica, revisione del codice del lavoro (a favore dei sindacati) e abolizione della podestà maritale. L’improvvisa sparizione della chiesa cattolica dai centri di potere dà inizio a un periodo di grande vivacità culturale, oltre che economica e sociale. Nel 1963 si produce il primo film dopo più di dieci anni di inattività. Al National Film Board, trasferito di recente a Montreal, si fanno le spalle larghe Claude Jutra, Denys Arcand, Pierre Perrault e Michel Brault. La morsa della censura si allenta sotto la direzione del liberale André Guérin. Cinepix, una società di distribuzione specializzata in film francesi, comincia a testare il mercato per l’exploitation e, ottenuta una buona risposta, si lancia nella produzione con Valèrie, la storia di una ragazzina che rinuncia alla vita in un convento di campagna per intraprendere la carriera di prostituta a Montreal (e finire, una volta trovato l’amore, a far le faccende di casa full time). Il film sarà a lungo il più grande successo al botteghino canadese e darà inizio a un filone di commedie erotiche noto come “Maple Syrup Porn” i cui titoli di maggiore successo sono Deux femmes en or, L’Initiation e La pomme, la queue et les pepins (letteralmente: la mela, lo stelo e i semi) . È il 1969.

La nostra storia riguarda però un altro distributore specializzato in film francesi, André Pepin. Cinefilo con il senso degli affari, Pepin intuisce i movimenti tellurici che vanno investendo la società québecoise per tempo e riesce a mettere le mani non soltanto sopra i film proibiti dal governo Duplessis (Carné, Becker, Melville, Clair, Tati) ma anche sui più commercialmente ambiti prodotti della Nouvelle Vague (Truffaut su tutti). Nonostante un discreto favore di pubblico e un catalogo in perenne espansione, la nuova generazione di distributori americani schiaccia la piccola Art Films. Pepin è costretto a inventarsi un altro modo per sbarcare il lunario. Trovato un partner e fondata la Films Vampix, cioè la Very Adult Movie Pictures, Pepin compra il cinema Hollywood, che al tempo non versava in buone acque, per farne uno dei primi cinema per adulti di Montreal, il Pussycat. A novembre si apre con un Russ Meyer double bill, Lorna (1964) e Motorpsycho (1965).

Il double bill di questa settimana è Pretty Little Things e Lex’d. Arriviamo all’inizio del secondo. Il Lex del titolo è Lexington Steele, il resto va da sé. Per giorni ho millantato che Lex avesse preso un dottorato in storia a Stanford: in realtà è un diploma alla Syracuse University. In ogni caso, la differenza nel film non si nota.

Il cinema proietta solo gonzo film: quattro-cinque scene della durata di mezz’ora ciascuno, nessuna sceneggiatura, una camera (a mano), pochissimi stacchi di montaggio. Per un gestore il gonzo è una scelta sicura. I nomi sono di solito molto conosciuti e il “genere” chiaramente specificato, spesso già dal titolo. In più, i film sono talmente monotoni che lo spettatore di solito non riesce a rimanere in sala per più di un’ora, a meno che non ci siano altre distrazioni attorno. La gente entra ed esce di continuo.

Il pubblico in sala è evidentemente annoiato. Quando prendiamo posto nel nostro piccolo recinto riservato alle coppie, una parte del pubblico si apposta attorno a noi e pazientemente resta in attesa. Noi guardiamo il film, loro guardano noi. Per qualche minuto non accade nulla. Spazientiti, due spettatori si alzano e si piazzano sotto lo schermo aguzzando la vista per catturare qualche movimento tra i privée del loggione. Prosegue il passeggio lungo i corridoi laterali. Un gemito fuori sincrono attrae altri spettatori sotto lo schermo. È troppo buio per dirlo con certezza, ma pare siamo gli unici sotto la cinquantina qua dentro.

Tre anni dopo l’apertura del Pussycat, Pepin acquista un altro cinema degli anni Dieci, il Regent in Avenue du Parc, e lo trasforma in un cinema porno, il Beaver. L’esperienza di distributore gli ha insegnato un paio di cose. La prima è che si guadagna meglio con la distribuzione che con l’esercizio. La seconda è che la distribuzione non dipende soltanto da logiche commerciali ma deve fare i conti regolarmente con le autorità politiche e giudiziarie. Così, Pepin, dopo aver ceduto il catalogo “d’autore” alla Cinémathèque Québecoise, ne rimette in piedi un altro a luci rosse e smuove le acque nel Conseil québecois pour la diffusion du cinéma, in cui siede tra i fondatori, per una legislazione più favorevole alla pornografia. La programmazione del Pussycat si differenzia da quelle delle sale rivali per una più spiccata vocazione cinefila. Pepin non ha più Bergman e Wajda in catalogo, ma non per questo ha abbandonato la sua vecchia idea di cinema. Non è la qualità dei film a preoccuparlo. L’ufficio di censura, nonostante le sue tendenze liberali e l’approvazione di un nuovo sistema di classificazione che designa +18 ciò che prima sarebbe stato bandito, continua a non chiudere occhio sul materiale sessualmente esplicito. Il Pussycat, come ogni altro cinema per adulti di Montreal, proietta film con tagli in media di dieci minuti. Gli anni Settanta, però, sono l’età dell’oro prima della sexploitation e poi del softcore, quindi il danno è tutto sommato limitato, seppure estremamente frustrante. Nonostante il Pussycat cavalchi la retorica nazionalista con una programmazione molto attenta alla produzione locale (“les films de fesses”), le pressioni politiche portate avanti per mezzo del Conseil non funzionano. L’evoluzione del genere si misura in metri di tagli: il catalogo di Pepin sembra un ospedale da campo. Nonostante tutto, nessun’altra sala fa gli incassi del Pussycat.

Tutto a un tratto la sala erompe.

Un uomo a petto nudo tiene per mano una ragazza vestita con un abitino leggero, a grandi passi si avvicinano alla nostra fila e prendono posto dall’altra parte del corridoio centrale. Tutti gli spettatori, tranne noi due, sciamano loro intorno. La ragazza si inginocchia di fronte all’uomo. Il pubblico rumoreggia. L’atmosfera improvvisamente si è fatta elettrica.

Entrambi restano senza vestiti.

Amoreggiano.

Armeggiano.

Tre spettatori tirano fuori delle piccole torce e illuminano le zone salienti dell’azione. Un uomo, più timido, si gode la scena a una fila di distanza. Tutti gli altri ispezionano i dettagli. Uno spettatore, meno vecchio e più secco del resto del gruppo, viene accolto nell’azione. Approvazione generale. I piccoli coni di luce delle torce schizzano da un corpo all’altro.

La mia accompagnatrice si dice non imbarazzata.

Illuminato dalle luci rosse delle lampade delle pareti, dalle torcette e dal pallore dello schermo, racchiuso in una semisfera di teste incrinate e braccia nervose, il gruppo, dalla nostra posizione, forma una composizione plastica di un certo impatto visivo. Roba tipo Rembrandt.

Alla fine degli anni Settanta, la famiglia Koltai si trova a un impasse. Proprietari del cinema L’Amour, strategicamente situato a Hull (oggi Gatineau) al confine tra il Québec e l’Ontario, a pochi chilometri da Ottawa, i Koltai si sono buttati sulla distribuzione da un paio di anni ma le cose non vanno benissimo. Pepin, proprietario delle due più grandi sale per adulti di Montreal, non noleggia i loro film. Koltai allora decide di comprare il palazzo del cinema, all’angolo tra il Main e Duluth, e aspettare. Quando il contratto di locazione del Pussycat scade, Koltai ne acquisisce la proprietà e lo rinomina L’Amour.  È il 1981 e Montreal ospita una ventina di sale per adulti sulle sessanta sparse per il Québec. Un sesto delle sale cinematografiche sono dedicate esclusivamente all’erotico. Secondo i dati sul consumo della provincia, quell’anno le sale per adulti hanno avuto circa tre milioni di spettatori contro i diciotto delle sale regolari. Il rapporto è notevole, specialmente se si eliminano dal conteggio la totalità dei minorenni e la quasi totalità delle donne. Ciononostante, è un dato di un’epoca al principio del declino; per la prima volta, infatti, si registra una flessione del consumo. Due le ragioni, una globale e una locale: la popolarità delle videocassette e la legge sulla censura in Québec. Gli introiti della vendita di VHS porno aumentano vertiginosamente di anno in anno e il numero di videoteche ha superato quello delle sale già alla fine del 1980. Il mercato è visibilmente eccitato. I profitti dei distributori sono sostanziosi, non ultimo grazie a operazioni di pirateria su vasta scala a danno delle compagnie USA. Le stesse, tuttavia, sono beneficiarie della politica repressiva del governo provinciale in materia di pornografia. L’hardcore, al momento del passaggio di proprietà, è bandito dalla legge: con i cinema costretti a proiettare versioni ironicamente chiamate i “cartoons” e con una produzione hardcore locale strozzata nella culla dal controllo poliziesco, l’esportazione clandestina di VHS statunitensi è un fenomeno talmente diffuso che alla dogana non si danno nemmeno la pena di sprecarsi in sequestri. Nel 1982 la legge sulla censura viene finalmente modificata, proprio quando Pepin, rassegnato, apre un videonoleggio in avenue du Parc: l’hardcore è lecito. Il pubblico però scompare.

Alla fine del decennio di sale ne sono rimasti tre. Alla fine di quello successivo l’Amour è l’unico di Montreal. Con la chiusura del Fox Cinema a Vancouver e del Metro Theatre a Toronto nel 2013 pare sia rimasto l’unico del secondo paese più grande del mondo.

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Un hipster entra in sala, intravede la scena dall’ingresso e si fionda in mezzo. Ha una trentina d’anni, la barba lunga e lo zainetto in spalla. Prova a farsi spazio. Conquista una buona posizione. Si abbassa i pantaloni. La ragazza mostra di non apprezzare, la folla gli si para davanti ad allontanarlo, riuscendoci. La scena dura qualche secondo e si consuma con rigore geometrico. Si percepisce l’esistenza di regole oltre a quella di non superare i cordoni dell’area recintata.

L’uomo si mette da parte, lasciando la ragazza alle attenzioni dell’ospite e della piccola folla esagitata. Tutti partecipano, in qualche modo. Al termine, la coppia ringrazia, saluta ed esce. Il capannello di uomini ringrazia a sua volta e si disperde. La sala è quasi vuota. Solo Lex resiste.

E il cinema l’Amour, invece? Come si resiste allo streaming, ai tube, alla “pornification”? A giudicare dalle condizioni della sala, la risposta difficilmente potrebbe essere ottimista. La gestione si arrabatta per tenere la baracca in piedi, pure traballante. Quattro giorni a settimana alcune categorie entrano gratis in sala, il venerdì è “Fun Freaky Friday” e il sabato “Swinging Couple Night”. Oltre ai DVD e agli snack, all’ingresso si possono acquistare magliette nere con una stampa gialla e rossa dell’insegna del cinema. Le spese si ottimizzano proiettando DVD, trascurando la manutenzione, riducendo personale e pulizia al minimo indispensabile, ringraziando il cielo di non dover pagare l’affitto in quella zona della città. Il costo del biglietto è aumentato di tre dollari negli ultimi cinque anni. Di tanto in tanto, la sala si apre a eventi speciali. Quest’estate Shortbus ha riempito la sala, l’anno scorso era stato Showgirls. Un festival, Pop Montreal, ogni anno organizza un paio di concerti con VJ-set. Il pubblico è giovane, tendenzialmente hipster, attratto dall’idea di entrare in uno spazio reso per l’occasione sicuro e sterilizzato, tanto quanto lo sono i molti curiosi dall’idea di non ritornarci mai più. L’Amour sopravvive con poche speranze.