Sergej Donatovič Dovlatov (Ufa, 1941–New York, 1990) di famiglia ebraico-armena, formazione leningradese e poi newyorkese d’adozione – a seguito dell’espatrio a cui fu costretto dall’impossibilità di pubblicare le sue opere in URSS – è uno scrittore oggi noto in tutto il mondo. In Italia, la sua popolarità si deve soprattutto ai ben undici titoli tradotti e curati da Laura Salmon per l’editore Sellerio: romanzi, racconti, taccuini in cui la matrice autobiografica e autofinzionale è sovente dissimulata dalla maschera dell’alter-ego Boris Alikhanov.

A partire da questo corpus così peculiare, il regista Alexey German Jr. ha lavorato al suo Dovlatov con un obiettivo quanto meno duplice: da un lato, quello di raffigurare e omaggiare la personalità di un autore singolare (ben interpretato dal serbo Milan Marić) e che è divenuto oramai un classico della letteratura russa del Novecento; dall’altro, quello di riprodurre sullo schermo l’atmosfera di una particolare stagione della vita culturale di Leningrado, l’epoca in cui anche suo padre Alexey German Sr. e molti altri aspiranti creatori cercavano di sopravvivere alla stagnazione dell’utopia sovietica dedicandosi all’arte.

Il regista ha raggiunto il primo intento collaborando con le eredi dello scrittore e nutrendosi di tutto quanto ha potuto rinvenire nei numerosi testi in cui Dovlatov ha rievocato i propri faticosissimi esordi. A chi voglia approfondire tali vicissitudini si consiglia sia la lettura del primo romanzo, intitolato nell’edizione italiana Regime speciale, scritto da Dovlatov in seguito alla sua esperienza di sorvegliante in un campo di lavoro – che anche German Jr. mette in scena in forma onirica – sia quella de Il libro invisibile che racconta non senza umorismo le circostanze della più volte rimandata pubblicazione di tale esordio, che uscirà poi solo in Occidente alcuni anni più tardi. Per chi ha già letto i suoi libri, ogni scena del film può rinviare a un passo di qualche opera, talvolta in modo nient’affatto esplicito. Ad esempio, persino quando il protagonista in visita al set surreale di un film celebrativo dei grandi romanzieri russi del passato rifiuta spicciamente l’offerta di bere un bicchiere ecco che viene in mente un passo da Il Parco di Puškin: “Feci un gesto di diniego. Ci manca solo che inizi. Poi non so smettere. Un autocarro senza freni…”.

Nel seguito del film, d’altronde, l’alcool ha la sua parte come consolazione e come collante della cerchia di artisti svantaggiati frequentati da Dovlatov, che non ignorava la pratica delle zapoi, le maratone di bevute che possono durare parecchi giorni (descritte tra l’altro in Limonov di Emmanuel Carrère). Alla kafkiana struttura burocratica dell’apparato sovietico che in quel tempo amministrava ogni aspetto della cultura, questi poeti o pittori erano invisi perché non allineati o anche, in molti casi, perché ebrei. Prendendo a prestito il titolo di uno dei libri più conosciuti di Dovlatov, in originale Naši e tradotto in Italia come Noialtri, si può dire che quei gruppi che si scambiavano samizdat e si ritrovavano ad ascoltare musica jazz presso il leggendario Caffè Saigon erano per Dovlatov un “noi” di cui egli avrà profonda nostalgia quando, esiliato negli Stati Uniti, troverà infine il riconoscimento che desiderava da anni. Come ha scritto la slavista Elisa Baglioni il termine “naši è letteralmente traducibile con ‘i nostri’, intendendo con ‘nostri’ non solo i parenti, ma un nucleo affettivo allargato, con un’affine sensibilità e disposizione d’animo. I naši sono persone unite nella (s)ventura, che riescono a conservare il senso della comunità”.

Non può quindi sfuggire che Aleksey German Sr. (Leningrado, 1938-San Pietroburgo, 2013) era nato, studiò cinema come allievo di Kozintsev e visse fino all’ultimo giorno della sua vita nella medesima città e accanto agli stessi gruppi di artisti ritratti nel film firmato da suo figlio. E che negli anni in cui l’autore di Proverka na Dorogakh (Controllo stradale) – datato proprio 1971 ma censurato e distribuito in patria soltanto nel 1986 – nascondeva sotto al materasso le sue pellicole e cercava, per lo più invano, di girarne altre, scrittori e poeti quali Dovlatov e Brodskij erano costretti a sbarcare il lunario scrivendo per giornali di fabbrica o adattando film polacchi.

Nel disegnare con grande cura i piani sequenza cui ci ha abituato già nei suoi film precedenti, German Jr. riesce a restituire la claustrofobia di un’esistenza trascorsa in ambienti angusti e sovrappopolati (la casa dove il protagonista abita con la madre dopo essersi separato dalla prima moglie, condivisa con molte altre famiglie e mostrata da un travelling notevolmente articolato; le redazioni che rifiutano un manoscritto dopo l’altro; etc.) o immersi nel biancore di un cielo basso che sembra sempre schiacciare i personaggi che si muovono in esterni.

Anche se Dovlatov si svolge tra il 1° e il 6 novembre 1971 lasciando sullo sfondo le celebrazioni della Rivoluzione d’Ottobre (da rivedere Under Electric Clouds, ambientato nell’anno del centenario, il 2017), il cinema di German Jr. non è mai direttamente politico, così come non era apertamente dissidente l’opera letteraria del suo protagonista, che fece dell’umorismo e del grottesco i modi per rivelare l’assurdità di un universo sovietico oramai decadente ma il cui dominio costringeva i protagonisti a un limbo senza via d’uscita. Ben vengano, i quadri onirici con cui German Jr. scandisce il racconto di sei giorni della vita dell’aspirante scrittore, che sogna ripetutamente di incontrare Brežnev su una spiaggia desolata o ritorna nel sonno al campo di lavoro dove maturò quello che avrebbe potuto essere il suo libro d’esordio. Quasi dispiacciono, invece, la scena didascalica della morte dell’amico David, e poi l’apparire di alcune didascalie vere e proprie, a partire da quella su Iosif Brodskij che riempie lo schermo ben prima della fine del film, nell’ultima scena in cui si vede il personaggio del futuro Premio Nobel.