Con il suo lavoro molto personale sulla finzione e il suo stile visionario e espressionista, Josephine Decker si è imposta alle attenzioni del pubblico come una tra i più promettenti cineasti indipendenti statunitensi attraverso due lavori presentati contemporaneamente alla Berlinale del 2014: Thou Wast Mild and Lovely e Butter on the Latch. Due film che lavoravano sul genere (nei due sensi di genre e di gender) e che trasmettono un senso di urgenza e immediatezza, lasciando intravedere l’importanza dell’improvvisazione e dell’intuizione nel modo di lavorare della regista. Se si fosse trattato di un unico esordio, si avrebbe potuto pensare a un caso fortunato, un piccolo miracolo in cui ogni elemento, dalla fotografia al montaggio, dalla scrittura alla colonna sonora, combaciava creando una sensazione di sospensione, ambiguità e allo stesso tempo di sconcertante realismo. Ma i film erano due, e già allora si è dovuto riconoscere che dietro alle opere di Decker non c’è alcun kairos, bensì un talento che si esprime in un preciso metodo registico.

Con Madeline’s Madeline (presentato al Sundance e poi in Forum alla Berlinale di quest’anno), Decker sembra riflettere esplicitamente proprio su questo suo metodo, portandolo alla luce in quello che tuttavia va ben oltre la metariflessione sul proprio (giovane ma già maturo) lavoro, offrendo allo spettatore un’opera che coinvolge e contemporaneamente porta a farsi delle domande sulla mediazione tra realtà e finzione in generale.

Come in Thou Wast Mild and Lovely la narrazione ruota attorno a un triangolo, in questo caso quello tra Madeline, adolescente magnetica (come l’attrice che la interpreta, la rivelazione Helena Howard) da poco uscita da una clinica psichiatrica, sua madre, interpretata da Miranda July, perfetta per la parte di donna insicura e apprensiva che cresce da sola i suoi due figli, e Evangeline (Molly Parker) la regista del gruppo di improvvisazione teatrale a cui partecipa la ragazza – in parte come forma di terapia. Nel suo bisogno di emanciparsi dalle ansie proiettate da sua madre, Madeline trova nell’improvvisazione un momento per esprimersi, e in Evangeline una sorta di madre adottiva che sembra capace di ascoltarla e valorizzarla e di offrirle un modello di donna volitiva molto diverso da quello della sua madre biologica. Come sempre, però, Decker lavora sull’inquietudine: sottilmente ma meticolosamente ci svela con una serie di sequenze emblematiche il ribaltarsi delle dinamiche tra le tre donne, e l’operazione parassitaria e sadica che inevitabilmente è la messa in scena della realtà attraverso la finzione. Un problema etico oltre che estetico, come dimostra, in un ennesimo caso in cui “la realtà supera la fantasia”, la coincidenza interessante dell’uscita, all’ultima edizione del Torino film Festival, del film codiretto da Decker e il suo ex compagno Zefrey Throwell, Flames, in cui i due filmmaker raccontano la loro breve relazione. Un progetto concepito in due, ma rimasto nelle mani di Throwell (unico presente a Torino a presentare il film) dopo la separazione dei due. Una separazione tormentata, soprattutto a causa del progetto che continua a legarli, e che diventa il focus principale da prima della metà del film, che lavora così anche in questo caso sulla metanarrazione della propria produzione. In entrambi i film, ennesima coincidenza rivelatrice, c’è l’uso delle maschere di animali come elemento irrinunciabile nella performance. In un intervista a filmidee, Decker aveva parlato della sua volontà di girare un film ispirato alla favola dei tre porcellini. Questa immagine ritorna, in modo totalmente diverso, in Madeline’s Madeline, in cui i performer del gruppo di improvvisazione indossano maschere da maiali in uno shooting promozionale per il loro imminente spettacolo. Flames invece, riprende una performance realmente messa in scena a Brooklyn da Throwell e Decker, in cui giocano a strip poker in una vetrina per sensibilizzare sulla natura predatoria dell’economia capitalista. Programmatica e velleitaria come tutto il film, la performance finisce in disastro: Decker ha un crollo di nervi davanti agli sguardi assetati di nudità femminile del pubblico di passanti e inizia a inveire contro di loro con una maschera da animale. Quanto questo risultato fosse desiderato (o almeno accolto con opportunistica gratitudine) da Throwell, emerge in forma mediata proprio in Madeline’s Madeline, in cui Evangeline provoca portando all’estremo la relazione tra madre e figlia e gongola quando Madeline esplode intuendo il potenziale del vissuto della sua pupilla per il suo spettacolo.

Madeline’s Madeline e Flames sono due film che riflettono sulla stessa questione muovendo da posizioni opposte. Da un lato un film che parte dalla finzione per esibire, indagare e problematizzare la realtà, la sua natura problematica fatta di rapporti di potere, e il dazio etico che sempre richiede la sua rappresentazione. Dall’altro un film che, come la pornografia secondo Linda Williams, “works hard to convince us about its own realism” [fa di tutto per convincerci del suo realismo]. Narcisistico e esibizionista come una instagram story estesa a 84 minuti, ma altrettanto effimero, in cui non c’è nulla di spontaneo, né di autentico, se non il protagonismo ingenuo del suo autore. Se Decker dissemina nella finzione autentiche tracce di sé, riuscendo a mediarle in un racconto universale, Throwell si autoproclama universale centro di interesse, e non c’è spazio per niente e nessun altro fuori e dentro il suo schermo.