Alla fine degli anni Venti, il Lot of Fun – così erano popolarmente chiamati a Hollywood gli Studi di Hal Roach – si poteva ancora considerare una sorta di “isola felice” in un panorama sempre più dominato dalle Majors, che diverranno le vere protagoniste del cinema americano a partire dal decennio successivo. Il pragmatico Roach sapeva di non poter contare sui mezzi delle grandi case concorrenti, così come era consapevole di dover scendere a patti con loro per quanto riguardava la distribuzione dei propri film. Tuttavia, sapeva anche che i suoi cortometraggi comici, realizzati quasi artigianalmente nell’arco di un paio di settimane, potevano contare su un pubblico vastissimo e affezionato. Anzi, come ha spiegato William K. Everson, «spesso, per gli esercenti, i cortometraggi di Chaplin o di Laurel & Hardy erano più importanti dei lungometraggi che li accompagnavano. Erano l’attrazione numero uno».

Roach riteneva quindi che la migliore politica per sopravvivere all’interno dell’incipiente Studio System fosse quella di spingere gagmen e attori a sperimentare nuove soluzioni comiche, almeno fin tanto che tutto ciò avesse garantito un adeguato ritorno economico. Questo spiegherebbe fra l’altro come mai alla Roach il passaggio dal muto al sonoro […] sia avvenuto in modo molto più morbido che altrove; e come ciò abbia permesso a Laurel e Hardy non soltanto di compiere il “grande salto” senza troppi sforzi, ma anche di rilanciare la propria popolarità.

Talvolta, a Roach piaceva ammantare il proprio realismo produttivo con qualche velleità artistica. In particolare, ci teneva a presentarsi come una sorta di anti-Sennett. «Mack era troppo “fisico”», spiegava in un’intervista rilasciata nel 1987, pochi anni prima di morire. «Una volta tutti usavano la farsa. Nel senso che buttavi fuori dalla scena un personaggio a calci, e questo cadeva sul posteriore nella scena seguente. Lo colpivi sulla testa con un’incudine, cosa che avrebbe dovuto ammazzarlo, e quello si rialzava solo rincretinito […] Al posto della farsa, noi creavamo storie». In realtà quello che probabilmente Roach voleva imporre ai propri prodotti era l’abbandono di certi eccessi (di trucco, di recitazione, di effetti), in favore di una maggiore distensione dei ritmi. «A quel tempo, i comici avevano la tendenza a fare troppo», avrebbe dichiarato molti anni più tardi Leo McCarey, che in qualità di supervisore alla produzione era, in quel periodo, uno degli uomini più vicini a Roach: «Una mattina sono arrivato e ho detto: lavoriamo tutti troppo in fretta. Dobbiamo smetterla con questi movimenti da tarantolati, e lavorare a velocità normale».

Benché sia lecito dubitare della versione di McCarey, questo cambio di passo è in effetti testimoniato da alcune delle migliori serie prodotte alla Roach nel corso degli anni Venti. Per esempio, nelle comiche dirette dallo stesso McCarey con protagonista Charley Chase – si prendano, fra le tante, Crazy Like a Fox o Mighty Like a Moose, entrambe del 1926 – la struttura è più vicina alla commedia degli equivoci che alla farsa vera e propria; in quelle interpretate da Max Davidson – il riferimento d’obbligo è al capolavoro comico Pass the Gravy (1928) – i tempi morti fra una gag e l’altra sono riempiti dalle reazioni estremamente rallentate del protagonista, che prolungano di parecchio l’effetto comico di ciascuna trovata. La stessa cosa si può dire anche della distruzione reciproca: per quanto di lì a poco Laurel e Hardy porteranno questa tecnica a livelli ineguagliati, è sufficiente dare un’occhiata al finale di A Pair of Tights diretto nel 1928 da Hal Yates (guarda caso uno degli sceneggiatori di Big Business) e interpretato da Marion Byron, Anita Garvin e Edgar Kennedy, per rendersi conto che alla Roach lo slow burn era una prassi tutt’altro che inusitata.

La risposta del pubblico dell’epoca a quello che si potrebbe definire lo “Stile-Roach” fu senz’altro positiva: il produttore aveva intuito che i tempi (non solo quelli comici) stavano cambiando. Come ha infatti osservato Petr Král, questo nuovo stile «corrisponde a un periodo di arretramento: a una “fine della festa” in cui, dietro la spinta della Crisi, la follia degli anni Venti a poco a poco cede il posto a una ricerca di stabilità».

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L’invenzione della lentezza da parte di Laurel e Hardy (con l’appoggio creativo-produttivo di McCarey e Roach) appare quindi legata al mutamento generale dello stile di vita statunitense sulla soglia degli anni Trenta. La “fine della festa” a cui Král fa riferimento si riflette con una certa evidenza nell’estetica dei film della coppia, Big Business incluso. Se si torna per un istante con la mente a quelli che erano stati gli oggetti e i luoghi “topici” della slapstick comedy, ci si renderà facilmente conto di come essi rimangano per lo più in secondo piano nei film di Laurel e Hardy.

Si pensi anzitutto allo sfondo della vicenda. L’ambiente in cui si svolge Big Business è ancora lo spazio urbano (per quanto se ne veda poco, e quasi soltanto nelle scene iniziali del film), ma della grande città di Lloyd, con tutti quei grattacieli da scalare, non resta traccia alcuna. Al suo posto, una vasta periferia formata da villette a schiera, prati tagliati di fresco, automobili (poche) ordinatamente parcheggiate lungo i marciapiedi; le strade, tolto qualche raro passante, sono praticamente deserte. Invano si cercherebbero, nel film, i grandi spazi di Keaton: lo sguardo di Laurel e Hardy, ha scritto ancora  Král, «è uno sguardo microcosmico. I limiti dell’universo della coppia, in fondo, non oltrepassano quelli di un sobborgo residenziale». L’impressione è che in questo film, come in molti altri del duo, gli esterni vogliano restituire una sensazione di chiusura.  Marco Giusti, che fra gli esegeti della coppia è stato il più attento ai valori spaziali e compositivi del loro cinema, ha osservato che «lo spazio esterno ci pare già come un interno a forma di scatola, in attesa che i due, più un nemico, lo animino».

Ancora più significativo è il ruolo che Laurel e Hardy assegnano all’altro e più importante simbolo della commedia degli anni Venti, l’automobile. Per quanto in Big Business i due si muovano a bordo di una versione pickup della Ford T, il prototipo dell’auto di massa protagonista di centinaia di comiche, il mezzo non è minimamente sfruttato né per la sua velocità né per le sue possibilità dinamiche. Anche in questo caso, può essere interessante ricordare come alla fine del 1928 la “Model T” fosse già obsoleta, fuori produzione da oltre un anno (l’ultimo esemplare venne infatti licenziato dalla Ford nel 1927), sostituita da nuovi modelli più moderni ed efficienti. […]

D’altra parte, il destino che Laurel e Hardy assegnano alle autovetture nei loro film di quel periodo è tutt’altro che glorioso: giusto per fare qualche esempio, si possono ricordare la Ford sprofondata in una buca piena di fango nel finale di Leave ‘Em Laughing (gag che verrà ripetuta nel sonoro Perfect Day, 1929), quella spiaccicata da un rullo compressore di Bacon Grabbers (1929) e soprattutto la grande, epica distruzione reciproca degli autoveicoli che occupa l’intero secondo rullo di Two Tars. All’elenco si può aggiungere anche Big Business, poiché proprio l’automobile sarà uno degli oggetti che andranno perduti nello scontro con l’iracondo James Finlayson. Il quale, come vuole la logica dello slow burn, sottoporrà il mezzo a una prolungata, metodica serie di sevizie: dai fari ai parafanghi, dalle portiere al pianale da rimorchio, fino al serbatoio del carburante “sradicato” dalla propria sede, il pickup di Laurel e Hardy viene smontato pezzo dopo pezzo e infine addirittura fatto saltare in aria.

La distruzione di un’auto non rappresentava certo una novità nella slapstick comedy: si pensi soltanto al sennettiano Lizzies of the Field (1924), in cui Billy Bevan coinvolge una decina di automobili in corsa verso uno spettacolare tamponamento a catena. Tuttavia, lì il caos nasceva ancora dal movimento, da una modernità caricaturale eppure cavalcata con allegra incoscienza. In Big Business, invece, la modernità e la sua frenesia sono già assimilate e lontane nel tempo, mentre all’orizzonte si va profilando la recessione economica.

All’azione sregolata e spesso precipitosa della tradizione slapstick, Laurel e Hardy oppongono dunque una sorta di teatrino della crudeltà in cui, come ha osservato a suo tempo Walter Kerr, «la gag non era più un pupazzo a molla che scattava all’improvviso», bensì «un rituale attraverso il quale i bene informati venivano gentilmente condotti». Laurel e Hardy non intendono travolgere lo spettatore con una serie di shock visivi: preferiscono invece accompagnarlo, un passo alla volta, verso un destino altrettanto funesto, ma comunque inevitabile. […]

Secondo Kerr, proprio questa è la svolta decisiva che Laurel e Hardy impongono al proprio cinema e alla slapstick comedy: il fulcro dell’azione comica passa dalla gag in sé al modo in cui i due comici la porgono allo spettatore.

(tratto da Gabriele Gimmelli, “Grandi Affari”. Laurel & Hardy e l’invenzione della lentezza, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 49-60. Per gentile concessione dell’autore.)