Quello che non so di lei è l’incontro tra due poetiche tanto definite quanto arroccate su canoni ben precisi: quelle di Roman Polański e di Olivier Assayas, qui in veste di sceneggiatore. Per quanto possa essere affascinante ricercare ora le tracce dell’una ora invece quelle dell’altra, riteniamo più opportuno evidenziare come le due arrivino a far ben altro che sfiorarsi – e s’intreccino anzi del tutto, dando vita a un connubio singolare di intenti e modalità nel quale convergono con disinvoltura le ossessioni della prima e le morbosità della seconda.

Il racconto alla base del film vede una scrittrice in crisi creativa alle prese con una sua accanita seguace: le due, inizialmente amiche e confidenti, si troveranno presto coinvolte in una relazione di dipendenza reciproca dai confini piuttosto torbidi. Ecco quindi che del cinema polanskiano il film esibisce anzitutto gli spazi chiusi, simili a prigioni e tuttavia sempre più bramati e attornianti, riuscendo però a chiudervi dentro i giochi a due di rispecchiamento e inquietudine propri della recente produzione di Assayas. Dall’abitazione della protagonista alla casa di campagna: una disperata ricerca di un ambiente-limite come lo furono il castello archetipico di Cul-de-Sac o gli appartamenti di Repulsione e L’inquilino del terzo piano, durante la quale ci si chiude in contesti sempre più ristretti e isolati, di volta in volta meno personali (un rimando altrettanto ovvio è ai film precedenti di Polański, che si svolgono da una parte nel teatro-prigione di Venere in pelliccia e dall’altra nel teatro-arena di Carnage). Parallelamente si viene coinvolti in un ritiro, quasi spirituale, che destina un’artista e la sua “collaboratrice” alla composizione di un’opera, come nel Sils Maria dell’autore francese: un duetto costellato di specchi e fantasmi che ruota tutto attorno al rapporto che lega l’immagine al reale, l’oggetto artistico (il libro, il segno) a ciò che rappresenta – di riflesso la scrittrice all’ammiratrice, la sagoma alla sua copia. Il rapporto tra la diva e chi vive alla sua ombra si trasforma in una danza di immagini, simulacri avvinti in una reciproca interdefinizione e del resto sempre più confusi, sempre più indistinguibili: a ciò si assommano l’ossessione polanskiana per i giochi di potere come la proliferazione di piani e di schermi di Assayas, tutto si mescola e tutto confonde, l’inquietudine si trasforma in bizzarria e il sospetto si vena di grottesco, mentre i fantocci che fanno da protagonisti (un’Eva Green caricaturale e una sbiadita Emmanuelle Seigner) mostrano sempre più il fianco delle proprie lacune, dei propri segreti. Sul più bello nulla viene concesso: la dipendenza malata che lega le protagoniste si scioglie quasi per magia e lo spazio che le imprigiona viene eluso per poi svanire del tutto.

È proprio nel finale che le poetiche dei due autori si sublimano l’una nell’altra: nel medesimo istante spalancando l’intreccio all’indeterminazione e serrandolo sulle proprie possibilità interpretative. L’ambiguità degli atteggiamenti e dei trascorsi delle due donne non fa che crescere per tutta la durata del film, trasformando i due personaggi in spettri misteriosi, privi di una storia quanto di vere relazioni con chi li circonda, tesi soltanto ad affrontarsi, senza apparente motivo, in una guerra silenziosa e senza fine; quando essa raggiunge il proprio culmine esplode come una bolla di fumo. Abbandona cioè la protagonista e quanto ha vissuto in un apparente nulla di fatto, un abisso in cui tutta la proliferazione di piani (la realtà, il sogno, il dominio virtuale – il mondo e i suoi doppi) si culla nel disordine e rifugge a qualsiasi ulteriore tentativo di chiarificazione. L’incontro tra Assayas e Polański, al di là di questo categorico rifiuto di una significazione piana e districabile, si sposta dall’intreccio al suo lascito: dal viaggio, frammentario e inquietante, alla sua meta ultima. Così l’epilogo non dipana la matassa né affibbia a ciascuna sagoma un’identità: piuttosto rimescola le carte e tira le fila di un racconto di formazione sui generis, che parte da uno stadio iniziale di disordine e va a chiudersi in uno sviluppo negativo e privo di speranze, nichilista per definizione, che vede una sagoma asservirsi ai propri riflessi e annullarsi in essi. Così la metamorfosi si è compiuta, la crisi si è risolta – l’individuo è stato inghiottito dalla sua immagine, a prescindere dall’inquietante e ambiguo processo che l’ha portato a un simile risultato.

Quello che non so di lei ripercorre allora le tracce di Sils Maria quanto, volendo, quelle del Persona di Bergman, senza però dimenticarsi di incamerare i cardini della riflessione polanskiana: come il ghost-writer de L’uomo nell’ombra o il Trelkowski de L’inquilino del terzo piano, l’eroina di questo film aderisce a ciò che il mondo le ha cucito addosso (dalla madre al suo pubblico e in fin dei conti anche se stessa): il risultato è una sovrapposizione perfetta, un annullamento completo. Al centro di tutto, un arcano irrisolto che forse è meglio non risolvere: cosa è successo in quella casa, chi era quella donna? Cosa c’è scritto nel libro che dà il titolo al film, uno dei tanti testi proibiti disseminati per il corpus del regista polacco (da La nona porta in poi)? La struttura ciclica che chiudeva in disgrazia le disavventure paranoiche di Trelkowski qua si riflette in un movimento di camera dal vago sapore meta-narrativo: la visione va a chiudersi nel libro, invitando così lo spettatore a una (ri)lettura segreta di ciò che ha appena visto – sondando di nuovo, con la propria riflessione, il confine che separa ciò che è reale da ciò che non lo è.