Un inizio in contropiede o forse l’intuizione di qualcosa di grande. Scemata l’eccitazione della serata inaugurale, la prima mattinata del 71° Festival di Cannes è dedicata al cinema militante, nella sua accezione più pura. Mentre ancora non è iniziata la competizione principale, nella Salle du Soixantième Thierry Fremaux presenta l’ultimo colossale film di Wang Bing, Dead Souls, documentario di otto ore sui sopravvissuti del campo di rieducazione di Mingshui, testimonianza di una storia rimossa della Cina maoista.

A interrogare il regista sono i mucchi di ossa umane, che riempiono la superficie dell’ex campo di detenzione nel deserto del Gobi: macabri resti di femori e anche, qua e là, teschi ancora integri, brandelli d’abiti, corde e qualche pietra colorata di rosso. Sulla superficie, tra le nuove coltivazioni e una strada trafficata, c’è un cimitero a cielo aperto, che nessuno vuole vedere. Proprio questo luogo della memoria aveva dato vita a un’istallazione dell’autore cinese, Traces (2014), in cui l’ombra del regista attraversava la distesa andando alla ricerca dei resti della presenza umana nella landa desolata. In Dead Souls l’esplorazione del teatro della vicenda ritorna in tre significativi momenti: una presa di consapevolezza politica (dal 1987 il governo favorisce la coltivazione della zona, pur di non lasciare tracce di quello che è stato), un atto di agnizione (i testimoni delle vicende bruciano simbolicamente le lettere per chi non ce l’ha fatta) e un gesto di testimonianza (le riprese finali dedicate all’ossario abbandonato). Ma al centro di questo documentario, che è il vero e proprio controcampo del lavoro di finzione I dannati di Jiabiangou (The Ditch, 2010), c’è la parola di chi è stato protagonista di una strage accaduta sessant’anni fa.

Dead Souls fa scandalo nel suo presentarsi come materia bruta: più che in altre occasioni, il cineasta non sembra prestare attenzione riguardo al guazzabuglio di formati e di definizioni con cui sono girate le diverse interviste ai sopravvissuti del terribile campo di Mingshui (da cui uscirono vive solo 300 persone su 2500). Ogni incontro – interrotto soltanto da un montaggio grezzo – porta con sé la precarietà e la fatica del realizzarsi: fin dall’inizio, i due coniugi che parlano con fierezza dell’Esercito Popolare di Liberazione e quasi si vergognano di essere finiti nel campo di rieducazione sono disturbati dal pianto di un bambino e dal continuo arrivare di nuove persone. Nel succedersi delle prese di parola si sente la vita che continua a scorrere, mentre irrompe lucida e indimenticabile la voce di un passato rimosso ma mai dimenticato. Ed ecco che le molteplici storie dei “sovversivi di destra” sono tutte estremamente simili, in un loop di otto ore in cui si rievoca un’umanità ai limiti, morsa dalla fame (quanti racconti, seppur indiretti, di cannibalismo?) e concentrata sulle proprie esigenze scatologiche. Da queste testimonianze, evidentemente, era scaturita la scrittura di I dannati di Jiabiangou, di cui riconosciamo i testi delle lettere, la descrizione degli anfratti dove gli uomini si riparano dal freddo, ma soprattutto la presenza salvifica delle poche donne che sceglievano di restare al fianco dei sovversivi, disonorati per la società. Dell’ultima parte del film a colpire non sono tanto le due interviste agli aguzzini (che ricordano, nell’uso calibrato delle parole e nell’adempimento agli ordini, “la banalità del male”) quanto l’ultimo ritratto di cui è protagonista una moglie, ormai anziana, ancora in lacrime per non essere riuscita a salvare l’amato marito. 

Di fronte al dolore degli anziani il regista si muove come il figlio a cui offre l’unica immagine di una Cina del presente: grato ai suoi genitori di essersi immolati, pur di non sottrarre il pane ai propri bambini, l’uomo mescola lacrime e fango in un’addio struggente. La camera, l’occhio e forse anche il corpo del regista, si vela di polvere durante la sepoltura ma continua a riprendere cogliendo attimi di inaudita intensità. E proprio in questa vicinanza, ancora più evidente rispetto alle ultime produzioni di Wang Bing (che qui fa domande, appare in diverse superfici riflettenti e alla fine incontra i carnefici), si tenta di coprire la distanza tra la testimonianza e chi la raccoglie, in un mirabile atto che dimostra ancora una volta l’umiltà del più grande cineasta politico dei nostri tempi. [Daniela Persico]


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IMPASSE D’AUTORE

Un passato inconfessabile che riaffiora, un contesto familiare turbolento, la dimensione apolide, propria dello stesso cinema di Asghar Farhadi, che ultimamente alterna produzioni in patria e all’estero. Sono i temi cari al regista iraniano, quelli di Todos lo saben, film di apertura del 71° Festival di Cannes, ambientato in una zona di campagna vitivinicola nei paraggi di Madrid (quasi una deliberata antitesi, se non uno sberleffo, rispetto alla patria dell’autore, l’Iran, dove il vino è bandito per la rigida osservanza della religione islamica) e con attori di richiamo come Penélope Cruz e Javier Bardem. Lo schema procede per stasi narrative, due situazioni bloccate, sospese: prima la riunificazione parentale per un matrimonio, occasione per la famiglia della protagonista di tornare nei luoghi natii da Buenos; poi la tragedia, conseguente al rapimento a scopo di estorsione della figlia della donna, che riapre ferite antiche, come un vaso di Pandora dal quale si propagano mostri, infedeltà e figli illegittimi (mater semper certa est). Una parte iniziale carnevalesca e rurale, degna dei primi film di Kusturica, stile Il profumo del mosto selvatico, che sfocia in un dramma famigliare di stampo quasi nordico, à la Festen di Thomas Vinterberg. Ma diversamente a quanto accadeva con Il passato, qui la coproduzione internazionale sembra nuocere all’operazione: Farhadi non trova una dimensione stabile e si perde nella continua oscillazione tra film di genere e opera d’autore. Lo stratagemma del rapimento poteva essere utile per scoperchiare l’inferno familiare borghese, con i risvolti sociali che emergono nella scena in cui i braccianti di Paco scendono in agitazione, ma il regista non ha avuto il coraggio di portarlo fino alle estreme conseguenze, e il thriller funziona solo in parte. A vuoto gran parte delle metafore di cui il film è costellato: l’ingranaggio del campanile, i diverticoli esistenziali che, per errore, possono dare origine al suono indesiderato delle campane. E Paco, il proprietario terriero che produce vino, intento in una delle prime scene a una lezione sulla differenza tra vino e mosto, sembra involontariamente ribaltare l’allegoria del film stesso, che non fermenta e manca di diventare un buon vino, rimanendo mosto. [Giampiero Raganelli] 


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IN THE FOG OF WAR

Fin dal suo esordio nella finzione con My Joy (2010), Sergei Loznitsa non ha fatto altro che rendere ancora più esplicita la propensione alla critica sociale già messa in evidenza dalla copiosa produzione documentaria. Cinema narrativo e del reale si alternano ormai stabilmente in una filmografia capace di spaziare dalla magniloquenza di In the Fog al minimalismo di Landscape, producendo una sinestesia dialettica di forme e significati. Con Donbass, il regista russo firma il suo film più estroso, attraversato da una vena grottesca che lo conduce verso un’inedita commedia nera corale: costruito in maniera circolare e caratterizzato da una progressione di articolati pianisequenza, evoca un panorama di sfacelo socio-politico in cui a fare da sfondo è il conflitto tra l’esercito ucraino e una milizia separatista sostenuta dai russi. Tra apici di tensione ed esplosioni improvvise, lo scenario è quello di una confusione diffusa di cui lo spettatore si fa partecipe, raramente messo a parte della posta in gioco o delle motivazioni dei diversi schieramenti. Ma quello che potrebbe essere il punto di forza del film, capace di evitare qualunque didascalismo, si trasforma in una fragilità allorché il susseguirsi di siparietti a volte ironici a volte tragici rivela il proprio scheletro programmatico e, pur nella varietà di situazioni, una sostanziale ripetitività tematica. La scena più intensa è quella in cui un anziano ex combattente viene legato a un palo lungo la strada da due soldati che lo espongono al ludibrio e alla violenza di vecchi e giovani, ma altre si protraggono inutilmente lasciando campo libero a una macchina da presa vorticante, come in quella del chiassoso matrimonio. E anche la satira sociale si stempera, con cadute nel macchiettismo che rivelano un insolito disprezzo per l’umanità raffigurata; fino a una chiusa violenta nella quale l’immagine cinematografica trova finalmente una sua stabilità, un distacco che ci ricorda come il miglior Loznitsa risieda altrove. [Alessandro Stellino]

LA SVOLTA DI CANNES