Il remake di Suspiria firmato da Luca Guadagnino aveva provocato scetticismo già all’epoca del suo annuncio ed era inevitabile che dividesse il pubblico anche a visione avvenuta. Così è stato. Il film di Dario Argento gode statuto di cult intoccabile: come osa il regista di Melissa P. e Call Me By Your Name avvicinare l’opera sacra, vetta di un cinema genere libero e visionario di cui siamo orfani da troppo tempo? La verità è che, da grande amante del film in questione, Guadagnino ha fatto quello che ogni cineasta alle prese con il rifacimento di un’opera del passato dovrebbe fare, soprattutto quando l’opera in questione è stata canonizzata e gode reputazione di capolavoro: ingerirla e risputarla fuori in una nuova forma, perché qualunque tentativo di “rifare” l’originale sarebbe inevitabilmente destinato al fallimento.

Nella volontà di confrontarsi con Suspiria non solo si misura tutta l’ambizione di un autore ormai deciso a ottenere il dovuto riconoscimento internazionale (percorso avviato con A Bigger Splash) ma anche l’indubbia consapevolezza di una visione personale, originale e pienamente contemporanea. Benché ambientato nell’anno di realizzazione del precedente di Argento (1976) e pur con un eccellente lavoro di set design nel ricostruire l’ambientazione berlinese, il film di Guadagnino si colloca pienamente nel presente, rifuggendo qualunque tentazione vintage e tenendosi alla larga da sterili citazionismi (al di là della presenza nel cast di Jessica Harper e poco altro). Dal punto di vista visivo, la fotografia di Sayombhu Mukdeeprom è di segno completamente opposto rispetto a quella di Luciano Tovoli, con ampie zone d’oscurità e toni soffusi, salvo esplodere nel sabba infernale della seconda parte. Assolutamente vincente la scelta di fare della danza la chiave interpretativa formale di una messa in scena che, in senso orrorifico, sostituisce alle indimenticabili scene madri argentiane vere e proprie coreografie di morte, portando alle estreme conseguenze la contorsione e la snodabilità corporea delle giovani ballerine. Altrove l’incedere del male si manifesta in incubi visionari che sconfinano nel territorio della video-arte, con montaggi subliminali e suggestioni à la Francesca Woodman, in un’idea di femminile amputato e sospeso.

E si va fino in fondo nell’affrontare la natura stregonesca, con una protagonista che non è più damsel in distress, vittima scarificale, ma presenza catalizzatrice, creatura peccaminosa già nel grembo materno, i cui rantoli in punto di morte sono il funesto annuncio dei futuri sospiri. Peccato che nella stratificazione del film il sovraccarico narrativo risulti eccedente: la scelta di fare della scuola di danza il crocevia di dinamiche che chiamano in causa persino il nazismo e il terrorismo della RAF, implicano un’evidente forzatura nel porre la madre dei sospiri al centro della tenebrosa vertigine del ‘900. [Alessandro Stellino]


coverlg

IL PUZZLE DELLA STORIA

Il massacro di St. Peter’s Field del 16 agosto 1819, che vide diversi morti e centinaia di feriti a seguito dei durissimi scontri tra la cavalleria militare e la popolazione riunita in manifestazione pacifica a Manchester per chiedere la riforma elettorale al parlamento britannico, fu una delle pagine più rappresentative del lento e faticoso processo di trasformazione democratica di una nazione. Ribattezzato con dolente ironia Peterloo, come calco alla battaglia di Waterloo (alcuni dei soldati che spararono sui propri connazionali avevano sconfitto poco prima l’esercito francese di Napoleone), fu soprattutto un episodio chiave per comprendere, oltre agli stretti confini di Londra, l’identità di una nazione divisa e la controversa dialettica tra comunicazione politica, coscienza di classe delle masse lavoratrici, e azione unilaterale di autorità precostituite.

In questa cornice per nulla estranea a generare risonanze sul presente, il cinema di Mike Leigh, più a suo agio con il realismo contemporaneo che con le storie in costume, opera una delicata e non sempre semplice azione di ricostruzione: qualcosa di molto simile al completamento di un puzzle, tessera per tessera, quadro per quadro, con alcuni personaggi più importanti degli altri come fu nella cronaca dell’epoca, ma una sostanziale assenza di punti di vista decisivi, a restituire le premesse e poi lo svolgimento di un evento impredicibile che potrebbe sintetizzarsi come il risultato di una strategia della tensione via via incontrollata. Peterloo è un film sulla massa che si forma con parziale incoscienza e sui poteri ufficiali che, in nome del proprio status di superiorità, calano con dogmatica violenza la propria mano su di essa. Un racconto di utopie germinali e cieca realtà, dove entrambe le parti in gioco sono a propria volta divise da incomprensioni, equivoci e lotte intestine.

Questo procedere per adiacenze quasi complementari, dal primo all’ultimo fatto, non senza discutibili accessi oleografici e retoriche circolarità narrative, è però proprio l’ombra che più interroga il racconto: in un film che mette in scena l’indubbia fascinazione dell’oratoria politica, la forza ora demistificante ora demagogica della parola e il segno opposto che essa esprime nella piazza e nel palazzo, fino allo scoppio incontrollato della tragedia, Leigh abbraccia gli eventi da storico naturalista e lascia intendere che il “fondo permanente” della conoscenza sull’uomo sia rintracciabile dalla somma delle emozioni che forma il tutto. È una posizione lontana dallo scetticismo liquido con cui altri autori avrebbero potuto trasporre lo stesso episodio, ideologica nel distinguere con vaga sommarietà buoni e cattivi. Di fronte a Mike Leigh non possiamo certo parlare di cinema a tesi: il passaggio più bello del film resta però quello in cui una donna del popolo, in mezzo a migliaia di altre persone riunite in piazza, realizza di non udire assolutamente alcunché di quanto l’oratore principale sta esprimendo dalla propria tribuna, ed esclama: “Perché quello non grida più forte?”. La Storia pulsa proprio in questi dettagli di provvisorietà, quelli che spesso sfuggono al puzzle. [Marco Longo]


coverlg-1

LA STRADA DI CASA

Di madri, figli e conflitti tratta l’ultimo film di Joachim Lafosse, riprendendo il filo di Proprietà privata nominato al Leone d’Oro nel 2006. Qui però la claustrofobia dello spazio domestico è sostituita dalla vastità delle steppe del Kirghizistan, dove Sybille (Virginie Efira) decide di portare suo figlio Sam a compiere un viaggio itinerante a cavallo. Anche qui una donna sola e divorziata deve fare i conti con la rabbia di un figlio che non le ha perdonato gli errori, i silenzi e le assenze. La deriva famigliare resta dunque al centro dell’indagine del regista belga, che ha deciso di ripetere la scelta del 2015 con Les chevaliers blancs e di girare il film en plain air ambientandolo in un paese altro, esotico e caratterizzante.

A continuare, nel film di Lafosse, sono diverse cose. Innanzitutto in continuo movimento è il loro vagare per una natura selvaggia, incontaminata, a tratti quasi lunare. I paesaggi si susseguono al ritmo lento del passo dei cavalli, soli veri interlocutori di Sam, con i quali grazie all’educazione ricevuta dal nonno materno è capace di instaurare un dialogo affettuoso e complice. Quello stesso dialogo che è invece impossible creare con Sybille, che oltre alla responsabilità del viaggio si assume anche quella della rabbia e della violenza del figlio che esplodono improvvise e che non scemano neppure di fronte agli occhi degli estranei, come si vede nella scena in cui, ignorando tutti principi dell’ospitalità, tratta da bifolchi i pastori nomadi che li accolgono o quando è pronto a puntare la pistola carica verso sua madre di fronte agli occhi esterrefatti dei loro ospiti.

A continuare è anche, però, l’evoluzione dei personaggi, che paiono venire a loro volta plasmati e quasi domati dalla natura che li circonda. Lungo il film, tra uno scoppio di rabbia e l’altro è possible vedere scendere sui due protagonisti una sorta di temporanea quiete data dal silenzio, dal vento, dalla potenza dell’alba. Una natura salvifica che non sottrarrà i due protagonisti dall’ineluttabilità della resa dei conti e dall’emergere di un dolore difficile da controllare. Una sorta di osmosi, quella attuata da Sybille, che porta la vita dove nulla conta più del figlio Sam nel nulla delle steppe russe. E confrontando i due vuoti scopre che quello del ragazzo è in realtà carico di una forza pronta ad esplodere. Ma se il film segue le esplosioni e i momenti di calma con una andatura irregolare, vedendolo si ha la sensazione che manchi un vero decollo del film e che non basti un viaggio in mezzo al deserto per risolvere le paure e le tensioni di un rapporto, quello madre-figlio, che è tutto fuorché che risolto.

Certo qui Lafosse si cimenta in un’impresa nuova, quella dell’adattamento dell’omonimo libro di Laurent Mauvigne, che mescola racconto di viaggio e dramma famigliare, creando una strana alchimia, che confonde e lascia sempre viva una sorta di tensione sotterranea. Mirabile l’interpretazione degli attori, e altrettanto incredibile il lavoro compiuto dall’equipe tecnica per rendere il giovane Kacey Mottet Klein (Avoir 17 ans), completamente a suo agio nei panni dell’abile cavallerizzo. [Nora Demarchi]


LE DOPPIE VITE DEGLI ALTRI

IL CORPO DELLA MEMORIA

NOSTALGIA DEL FUTURO