Caso curioso e/o fato capriccioso che Un affare di famiglia di Kore-eda Hirokazu sia il primo film giapponese ad aggiudicarsi la Palma d’oro a distanza di ventun anni da L’anguilla del maestro Imamura Shōhei per almeno due motivi: sia perché ci troviamo di fronte al film più “imamuriano” del regista sia perché quella «nazione di gemelli» di cui parlava Itami Juzō, contrapponendola alla «nazione di estranei»[1] incarnata dall’America, si trova ancora in quel limbo in cui la Legge continua ad anteporre il legame biologico, di sangue, a quello affettivo.

La famiglia al centro del nuovo film di Kore-eda è una piccola comunità unita dal caso, ma la cui volontà di rimanere uniti è riconfermata continuamente dalle scelte di ciascuno dei membri che ne fanno parte. Come Imamura, da una parte Kore-eda si sofferma sulle «parti basse della società» per mettere in risalto la somiglianza sostanziale tra gli uomini a dispetto di ogni categorizzazione sociologica; dall’altra però la sua visione “entomologica” si focalizza quasi unicamente sulla naissance de l’amour.

Se, come dichiara il regista, attraverso il cinema è possibile «catturare l’amore»[2], l’attenzione al moto interiore più impercettibile è portata qui all’estremo (dai piedini di Yuri che si abbarbicano attorno al piede dello sgabello, al lento ritrarsi di Nobuyo nel momento in cui dovrebbe riconsegnare la bambina), fino a una sequenza che, in un certo senso, divide in due tranche il film.

L’abbraccio tra Nobuyo (Andō Sakura) e Yuri non è un semplice gesto domestico, quotidiano e dimesso, ma un atto clamoroso che, mettendo in circolo un flusso d’amore, frantuma le barriere del tempo, della “convenienza” e, altresì, sottopone la narrazione e la vita della bambina a una nuova forma di strazio: «la tenerezza» scrive Barthes «non è che è una metonimia infinita, insaziabile; il gesto, l’episodio di tenerezza (il delizioso affiatamento di una serata) non può interrompersi che con uno strazio», poiché «tutto sembra essere messo nuovamente in causa»[3].

Il tempo, più che in altre opere di Kore-eda, assume qui una dimensione ingombrante, segnalata nella sua natura biforcuta: l’oggettività è così rimarcata dalla presenza del timer che Aki (Matsuoka Mayu) aziona prima di iniziare ogni sua sessione di spogliarello nel locale in cui lavora. Il tempo oggettivo è monetizzabile e serve a riconfermare un sistema produttivo che si riverbera sui corpi individuali e che, di fatto, genera dei modelli vuoti di attanti cui i soggetti dovranno sottostare, pena il rifiuto della società.

Una famiglia povera che vive di furtarelli veniali è un bersaglio facile perché, per dirla con Céline, questo gesto «comporta una sorta di tacito rimprovero verso la comunità»[4]. E allo stesso modo, la possibilità di una “forma di vita” che elude il disposto normativo dovrà essere soffocata «con rigore estremo, non solo come mezzo di difesa sociale, ma anche e soprattutto come monito severo a tutti gli sventurati di doversene stare al loro posto […] allegramente rassegnati […]»[5].

Tutto, persino il sesso coniugale o l’incontro amoroso, rischia di piombare nel regno della prestazione. Solo attraverso l’abbraccio, tramite il quale «tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione», in cui «tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati»[6] è possibile spezzare l’iter della riconversione.

Per smantellare la figura del giapponese medio è necessario operare da una parte all’interno del sistema, accettandone limiti e vantaggi, e dall’altra ricercando «un punto di vista esterno»[7]. E per questo si dovranno accettare le idiosincrasie dei personaggi (in particolare di Shota), singolarità in movimento perpetuo – come quella della bambina di Moving di Sōmai Shinji – che si trovano a dover gestire il mutamento degli stati d’animo e le proprie trasformazioni interiori in seno alla società. Il tempo del riconoscimento che per Yuri e Nobuyo ha una manifestazione visibile (la bruciatura che le rende «uguali» benché non siano madre e figlia) tarda ad arrivare per Osamu (Lily Franky) e Shota, tanto che quest’ultimo sarà in grado di accettare il “padre” quando la legge gli impedirà di vivere insieme.

Come sperimentato da Kurosawa Akira nel suo capolavoro d’ambientazione contemporanea Dodes’ka-den – con cui potrebbero rintracciarsi svariati punti di contatto: si pensi, tra l’altro, all’importante dialogo tra Osamu e Shota all’interno dell’auto, ridotta ormai a una carcassa, che ricorda la Citröen 2CV dove il padre mendicante sogna un futuro glorioso e accudisce, come può, il figlio – il tempo soggettivo, difficilmente inquadrabile, s’inceppa negli ingranaggi del tempo materiale, attestandosi nella circolarità predittiva del treno invisibile che, come sempre, ricomincerà la corsa. Così anche per il tempo di vivere e il tempo di morire in Un affare di famiglia: l’ultimo sguardo della nonna (la compianta Kiki Kirin) – una soggettiva aperta –, prima che la morte la colga, va a quel microcosmo di persone care che giocano sulla battigia; un’inquadratura impaziente di incrociare gli occhi della piccola Yuri, di nuovo imprigionata nel balcone, che vagano alla ricerca di quello stesso orizzonte marino forse ormai troppo distante.

[1] V. Canby, What’s So Funny About Japan? https://www.nytimes.com/1989/06/18/magazine/what-s-so-funny-about-japan.html?pagewanted=all Consultato il 19 settembre 2018.

[2] A. Finos, Kore-eda Hirokazu: La famiglia è fatta di sangue o di tempo passato assieme? http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2018/08/24/kore-eda-hirokazu-la-famiglia-e-fatta-di-sangue-o-assieme40.html Consultato il 19 settembre 2018.

[3] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 2014, p. 201.

[4] L-F. Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 2011, p. 79.

[5] Ibidem.

[6] R. Barthes, op. cit., p. 13.

[7] V. Canby, What’s So Funny About Japan?