Nel 1966, in una risposta al questionario di ammissione alla dffb (la scuola berlinese di cinema e televisione), che chiedeva da quale romanzo avrebbe voluto trarre un film, Harun Farocki scrive che vorrebbe adattare Transito di Anna Seghers [1], osservando, tra l’altro, come la trama consentisse di “dare a una parabola la veste della realtà storica” [2]. La donna dello scrittore (Transit), il film che Petzold ha liberamente tratto da Transito, è dedicato proprio alla memoria di Farocki, amico, maestro e collaboratore del regista: a suo dire, il libro di Seghers era un oggetto ricorrente delle loro conversazioni e un’ispirazione sotterranea per molte delle sceneggiature scritte insieme dai due, ma il progetto di un adattamento era rimasto ancora a uno stadio iniziale alla morte di Farocki nel 2014. Il film finalmente realizzato comporta però un fondamentale spostamento, che tradisce la lettera di quell’osservazione di Farocki, rendendo insieme omaggio alla sua capacità di criticare la rappresentazione e interrogare la realtà storica in ogni immagine. Poiché Petzold ha privato il racconto originale della sua “veste” d’epoca e la “realtà storica” qui non è registrata come un dato acquisito su cui intessere una narrazione, ma emerge piuttosto come una zona d’interferenza tra epoche distanti, una perturbazione che sospende la parabola fuori dal flusso storico, mostrando il suo ripetersi infernale.

La realtà storica è quella vissuta in prima persona dalla scrittrice comunista, quella dei profughi tedeschi che nella Marsiglia del 1940 cercano una via di fuga dalla Francia invasa dai nazisti, bloccati in un limbo di visti, permessi, code in ambasciate e la minaccia costante di un arresto che vanifichi tutto. La parabola del protagonista (anonimo nel romanzo, qui Georg), è quella di un uomo che sfuggito ai campi di concentramento riesce fortunosamente ad assumere l’identità di uno scrittore suicida e finisce per innamorarsi della sua vedova. Ricerca di un’identità nella condizione d’esiliato, romanzo di formazione in una società che si sgretola: questo destino paradossale, che lo tiene in bilico tra mondi che non può abitare, si amplifica nel film come una condizione di extraterritorialità temporale, che accomuna i fuggitivi di ogni epoca.

La donna dello scrittore chiude la trilogia storica che Petzold intitola “L’amore al tempo dei regimi repressivi”: dopo la DDR dei primi anni Ottanta ne La scelta di Barbara (Barbara, 2012) e la Berlino in macerie del 1945 ne Il segreto del suo volto (Phoenix, 2014), questa Marsiglia del 1940 è un ultimo balzo all’indietro nella Storia e al contempo una giravolta che afferra in un solo gesto passato e presente, calando la vicenda dei rifugiati in cerca di un passaggio oltre frontiera nella Francia di oggi, tenendo l’azione in bilico tra le vicende storiche e la loro risonanza con quelle attuali. L’analogia tra i profughi di ieri e di oggi è evocata senza scadere in analogie enfatiche e superficiali: piuttosto, tramite un anacronismo diffuso e sfocato, Petzold fa dell’immagine stessa uno spazio di transito, lasciando che la sua ambiguità contagi gli spettatori come qualcosa che li riguarda.

Quasi fosse un vecchio film di serie B, dove la produzione deve limitarsi ad accennare un’ambientazione che non può permettersi, lo sfasamento temporale è ottenuto soprattutto per reticenza: un’asciuttezza che, se non lascia perplessi entro i primi minuti, coinvolge in un’atmosfera di tensione e titubanza. La messinscena procede come un numero di funambolismo, un’accurata vaghezza nei costumi e nelle scenografie, cercando di non sbilanciarsi con riferimenti troppo stringenti al presente o al passato, ma lasciando cadere dettagli dissonanti, su tutti i documenti cartacei attorno a cui gira la trama e il destino dei personaggi. La lettera della moglie e il visto per il Messico che Georg ha l’incarico di consegnare al romanziere antifascista Weidel, così come il documento d’identità e il manoscritto di quest’ultimo, che egli trafuga quando entra nella stanza dello scrittore morto suicida, appaiono come vecchie carte, che nel contesto contemporaneo assumono una presenza spettrale. La donna dello scrittore è dunque un film in costume spogliato, dove non possiamo immergerci nel lusso di una ricostruzione né farci avvolgere dalle nuove pieghe di un adattamento: dobbiamo invece adattarci a questa imbarazzante nudità, che ci segue fastidiosamente come la stessa vicenda non smette di stringersi attorno al protagonista, offrendogli rispecchiamenti e mancate agnizioni, incalzandolo con una domanda che riguarda la sua identità e la sua destinazione.

Questo studiato disorientamento si sgancia dall’operazione sostitutiva della metafora che può sostenere un film in costume, in cui il passato sta per il presente, per costruire uno spazio-tempo improntato alla metonimia, dove tempi distanti convivono uno accanto all’altro. Un’ispirazione per Petzold viene dalla stessa stratificazione storica e architettonica di Marsiglia, che offre in sincronia il suo meticciato di epoche e culture. Anche qui, però, il regista si trattiene da ogni tentazione pittoresca, lavora per sottrazione, per poi sbatterci in faccia, come anacronismo programmatico, la passerella sospesa tra i bastioni medievali del Fort Saint Jean e la postmoderna struttura del MUCeM [3], intervento architettonico di simbolica connessione, che la signora coi due cani illustra a Georg poco prima di lanciarsi nel vuoto tra gli edifici. Tramite questi cortocircuiti sommessi quanto traumatici, Petzold mira, per sua dichiarazione, a un effetto paragonabile a quello delle Stolpersteine [4], le “pietre d’inciampo” poste nel selciato stradale di fronte alle case delle vittime delle deportazioni in molte città europee: un progetto diffuso e anti-monumentale che implica una pratica della memoria attiva e intermittente, un percorso accidentato fra le tracce del passato nel presente.

Oltre al romanzo di Seghers, fonte d’ispirazione per Petzold è l’autobiografia di un altro comunista fuggito dalla Germania nazista e rimasto intrappolato nella Francia occupata, Georg K. Glaser [5], che definiva la situazione dei rifugiati una “Geschichtsstille”, una “bonaccia della Storia”, una quiete mortifera in cui la tempesta incombente appare stranamente lontana. Un altro protagonista di quei giorni, Varian Fry, giunto a Marsiglia con la missione di traghettare negli USA artisti, intellettuali e altri eminenti personaggi minacciati, descrive la dissociazione che tale sospensione produceva: “Erano estremamente agitati dall’idea di restare e paralizzati dalla paura di partire. Potevi aver preparato tutto, passaporti e visti in regola, e un mese dopo trovarli ancora seduti in un caffè di Marsiglia ad aspettare che la polizia venisse a prenderli” [6].

La tensione da thriller che accompagna la fuga di Georg per le strade di Parigi e poi sul treno accanto a un compagno agonizzante, sembra allentarsi con l’arrivo a Marsiglia, e si converte in questa risacca esistenziale in cui non è concesso tornare indietro né proseguire. “Posso restare solo se dimostro di non voler restare?” chiede ironicamente Georg all’albergatrice, che vedendolo senza permesso di soggiorno o visto d’uscita impone un prezzo osceno per una camera. Mentre la Storia procede inesorabile, ai margini del quadro, la piccola storia si comprime ruotando attorno al nucleo caldo di un melodramma, che si snoda tra labirinti burocratici e stanzette d’albergo, in una sala d’attesa per l’inferno che è già l’inferno, come racconta un apologo che Georg cita al console americano, rubandolo allo scrittore cui ha già sottratto l’identità. Inizia una giostra inquieta in cui volti e luoghi si ripetono ossessivamente, documenti e identità si scambiano, corpi si sfiorano e si rincorrono, tra esitazioni, slanci, rinunce, silenzi. Un’atmosfera ai limiti della paranoia, in cui non è mai certo se essere riconosciuti porterà salvezza o sventura. In questa sospensione delle identità, che da fatalità burocratica diventa destino, i personaggi ritagliano i propri percorsi mantenendosi in una bolla di invisibilità, tra l’indifferenza dei passanti e la minaccia del controllo (la prima immagine di Georg a Marsiglia ci è data dall’inquadratura di una videocamera di sorveglianza). Petzold dice di aver letto agli attori le prime pagine di un capolavoro paranoico come Il pasto nudo, per trasmettere loro uno stile di movimento anonimo nello spazio urbano comune ai profughi come ai junkies di Burroughs, che si spostano per corridoi e zone franche, una “interzona” di provvisorietà e non appartenenza in cui echeggia anche il vecchio monito di Brecht: “Cancella le tracce!”[7].

I tavolini di un anonimo ristorante, il Mont Ventoux, forniscono un riparo temporaneo di fronte a una pizza e una bottiglia di rosé, mentre oltre i vetri della sua facciata sfrecciano le camionette. Ed è proprio al barista del Mont Ventoux che Georg affida la propria storia, insieme al dattiloscritto di Weidel che ha trafugato. Petzold traduce la prima persona del romanzo di Seghers in una voce ai margini del racconto, rendendo il voice over del barista un altro spazio di passaggio e incertezza. Le sue parole ci rendono il punto di vista di Georg da una certa distanza, conservando un’aura di indecifrabilità su un personaggio che inizialmente ci appare gettato tra gli eventi e che si fa strada afferrando brandelli d’identità offerti dalle circostanze e dalle carte di cui s’impossessa. Ma più che nei documenti di Weidel, è nel suo scritto, “Gli scampati” (Die Entronnende), che Georg trova un appiglio e un pungolo per la sua coscienza. Leggendone le pagine sul treno per Marsiglia, Georg specchia la propria condizione sradicata nel destino dei personaggi: “folli, immischiati in vicende terribili e nebulose”, ma le cui azioni trovano una sorta di leggibilità nella scrittura, in una lingua madre che risuona per Georg come promessa di un ritorno a casa, la stessa di cui parla una ninna nanna che gli cantava sua madre.

Così Georg si scopre gradualmente scrittore della propria storia, intravede una molteplicità di ruoli cui potrebbe aderire: potrebbe essere il compagno di una nuova vita per Marie, la moglie di Weidel che percorre le strade di Marsiglia come uno spettro inquieto in cerca del marito che non sa già morto; Richard, il medico per cui Marie ha lasciato Weidel, quando Georg si offre di aiutarli a trovare un visto alla donna, sospetta sia un bieco trafficante di persone; per il piccolo Driss, il figlio del compagno morto in treno, potrebbe essere una nuova figura paterna. Potrebbe. Ma il film di Petzold sceglie di serbare questo stato di possibilità, di potenza nella condizione di massima fragilità ed esposizione, sceglie di stare dalla parte dei fantasmi che, come in altri suoi film, sono il residuo indesiderato del procedere della Storia, incongruenze temporali che scivolano nell’invisibilità, ma sopravvivono per infestare il presente. Il film s’intrattiene su una soglia, voltando le spalle a ciò che arriva. E nello strabismo temporale a cui il film ci ha condotto, sappiamo quello che arrivò al tempo, temiamo quello che potrebbe accadere domani. Forse Georg prenderà uno zaino e se ne andrà in montagna – a sostenere la Resistenza? A cercare un passaggio sui sentieri dei Pirenei? Ma noi lo lasciamo lì, a un tavolo del Mont Ventoux, con le spalle all’ingresso, resistendo alla tentazione di guardare chi entra e cedendovi tutte le volte, come nel mito di Orfeo o in un gioco di bambini. Marie resta un fantasma, una promessa di salvezza che potrebbe sempre far capolino.

Un altro profugo tedesco, un filosofo ebreo antifascista, si aggirava inquieto per Marsiglia in quei giorni, Walter Benjamin. In uno scritto recente dedicato alla filosofia della Storia, aveva parlato di un quadro di Paul Klee, Angelus Novus, che rappresentava per lui l’angelo della Storia: il viso rivolto all’incessante catastrofe che è il passato, le ali impigliate in una bufera che lo spinge verso un futuro a cui volge le spalle” [8].

[1]    Anna Seghers, Transito, Edizioni e/o, Roma 1991.

[2]    Cfr. http://newfilmkritik.de/archiv/2018-04/harun-farocki-ueber-transit-1966/

[3]   http://www.mucem.org/en/the-mucem

[4]   http://www.stolpersteine.eu/en/

[5]    Georg K. Glaser, Geheimins und Gewalt: ein Bericht, Vineta, Basile-Losanna-Parigi 1951.

[6]    Varian Fry, Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-41. Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti, Sellerio, Parlermo 2013.

[7]    Per il riferimento a Burroughs cfr. Daniel Kasman, A Citizen Without Civilization: Christian Petzold Discusses “Transit”, MUBI Notebook, 25.2.2018. Le altre dichiarazioni di Petzold a cui si fa riferimento nel testo si trovano nel press book del film.

[8]    Cfr. Walter Benjamin, “Sul concetto di Storia”, in Id., Opere Complete. VII. Scritti 1938-1940, Einaudi, Torino 2006, p. 487