Quinquin è cresciuto ed è diventato Coincoin, lettere diverse, stessa pronuncia. Vive sempre con suo padre e suo zio in un paesino della Cote D’Opale, in quella provincia francese punto fisso delle opere di Bruno Dumont. Improvvisamente strani fenomeni di natura aliena sconvolgono la comunità, alcuni cittadini vengono clonati e le loro copie carbone si aggirano indisturbate per le strade.

Dumont prosegue il discorso lasciato in sospeso durante la prima stagione di questo affresco grottesco della contemporaneità riutilizzando i medesimi protagonisti nei ruoli che erano stati affidati loro, e senza imprimere alcuna evoluzione drammaturgica ad alcuno. L’ispettore Roger Van Der Weyden e il suo secondo Carpentier si aggirano sempre goffi e ottusi per le vie, non riconoscendo le più palesi ed evidenti verità fattuali, il padre di Coincoin si limita a gridare e insultare chiunque gli capiti a tiro e il suo migliore amico Le Gros rimane la spalla ridicolmente e volutamente pseudo machista che è sempre stato; l’unica variazione sul tema è l’inclinazione sessuale della sua ex fidanzatina, ora impegnata in una relazione con una coetanea.

Se la prima stagione era completamente condizionata dalla parziale visione di Quinquin, rendendo l’intero impianto drammaturgico uno specchio dell’autoreferenzialità del contemporaneo, quando Quinquin diventa Coincoin l’abisso sprofonda ulteriormente e, attraverso l’espediente sottotestuale del doppio, Dumont obbliga i personaggi di questa storia a guardare dentro se stessi e a rendersi conto del vuoto che li costituisce. Questi cloni presi in prestito dal cinema di genere più classico (la mente va inevitabilmente a L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel) conservano tutte le caratteristiche degli originali e diventano un’estensione ontologica che mostra un mondo che ha superato il postmoderno e che ora si ritrova arreso al nulla, nel quale solo l’apparenza e l’inerzia sono sopportabili da una comunità che vive di nuovi dogmi, impregnati di un populismo nichilista che ha nel grottesco l’unico modo per esprimersi. Ecco che allora l’ispettore della Gendarmerie Nationale ammonisce violentemente Coincoin e i suoi amici con l’accusa di essere semplicemente giovani, e discrimina un gruppo di migranti solo per la loro esistenza. Se la ricerca della verità non è più una cosa di questo mondo l’unica istanza in grado di sopravvivere agli occhi dell’uomo contemporaneo sono i postulati, e qualsiasi cosa accada al di fuori di essi non è vista o sentita.

Coincoin in questo senso continua a essere un testimone oculare che è nel medesimo istante al di fuori e all’interno del mondo che osserva, e non comprendendolo dimostra di serbare dentro di sé ancora un’ultima scintilla di dubbio, che rischia tuttavia di perdersi, con il procedere della narrazione, all’interno di questo vortice di paradossali e stolide certezze.

Bruno Dumont si conferma narratore di un assoluto presente che mette in scena la deriva selvaggia del post strutturalismo e ne mostra le conseguenze più beffarde. Quando i legittimi dubbi sulle dietrologie del sapere si trasformano in un’impermeabilità assoluta verso quest’ultimo, l’unico strumento rimasto all’artista per raffigurare la realtà diventa, inevitabilmente, l’assurdo. Grazie all’impianto episodico di P’tit Quinquin e di questo Coincoin et les z’inhumains la possibilità di giocare con la comicità isterica si ingrandisce e diventa quasi fluviale, e mentre negli ultimi due lungometraggi, Ma Loute e Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, la forma filmica coesa rendeva il grottesco parificato all’impianto sottotestuale, qui l’incedere demenziale dei personaggi diventa esso stesso il sottotesto, riflettendo la narrazione in uno specchio deformante che la rende lineare come i pensieri dei protagonisti.

Ma un’invettiva senza appello non appartiene al cinema di Dumont, che dai tempi di La vie de Jésus e più avanti di Hors Satan dipinge sempre la classe medio-bassa francese non vittimizzandola né risparmiandole tutte le bassezze e le sporcature tipiche di maschere liminali sfigurate dalla miseria, ma facendo trasparire allo stesso tempo una profonda malinconia che, allargando lo sguardo, la vede intrappolata all’interno di un’era che ha appiattito la lotta di classe, senza eliminarla. L’inumano sotto gli occhi di Coincoin fa quindi parte di quell’Humanité che con il passare degli anni non trova più una sua identità passando per la rappresentazione del reale, quanto piuttosto attraversando la farsa nonsense di un’anarchica fiera di paese, riflesso di una civiltà al crepuscolo spinta da se stessa verso il baratro.