Realizzato nel clima di violenza terroristica dei tardi ‘70, Suspiria di Dario Argento non recava traccia apparente del conflitto in corso. Visionaria fiaba nera (e rossa e blu), segnava la svolta immaginifica nella carriera di un regista che frantumava le deboli strutture narrative dei thriller precedenti in un tripudio di macabre scene di morte, epifanie truci e teatrali in un andamento da incubo. Eppure un film cela in sé, sempre e comunque, l’inconscio del proprio tempo e non è fuori luogo leggere la sete di assimilazione delle giovani ballerine da parte delle vecchie megere rantolanti come il desiderio di annichilimento di una generazione per mano di un’altra. Così Suspiria di Guadagnino, quarant’anni dopo, fa quello che dovrebbe fare ogni remake: germinare sulle ceneri mai sopite del film originario, per ricrearlo a nuova vita in un altro tempo e in un altro spazio, rivelandone la natura più profonda e portandone a galla il sommerso, in una sorta di orrenda e salvifica filiazione materna.
La madre va uccisa, perché la figlia viva. Ed è nel più profondo rispetto sacrale che Guadagnino sacrifica Argento sull’altare di una rinnovata concezione d’opera, realizzando un film denso e stratificato, multiforme tanto quanto il precedente era scabro e astratto. Scansando qualunque forma di feticismo e limitando al minimo i riferimenti all’originale (la presenza di Jessica Harper, certi subliminali movimenti di macchina nei corridoi dei piani interrati e poco altro), rivendica in toto l’autonomia di una concezione nella quale confluiscono in maniera vertiginosa istanze sulla carta non facilmente conciliabili. Forse troppe, tra rimandi al nazismo e attentati della RAF, ma in sintonia con l’ipertrofia del cinema contemporaneo: il Suspiria del 2018, ambientato nel 1977, è un film sull’ineluttabile sconfitta del Bene, il bagno di sangue è quello in cui sono annegati gli ideali libertari del decennio precedente; la ferita, immonda e putrescente sotto una coltre di incerta stabilità, si spalanca in un torace squarciato.
Volgendo dall’esterno all’interno una concezione pandemica del Male, seme oscuro che alberga nell’umano e specie nella donna, in quanto creatura procreatrice, Guadagnino fa del consesso di streghe e della loro scuola di danza un baratro di oscurità che la protagonista accoglie e chiama a sé, in quello che è il gesto più profondamente sovversivo del film: sia per il ribaltamento di senso nei confronti dell’originale, con Suzy/Susie non più vittima passiva ma agente primaria, sia per il coraggio di restituire all’orrore (inteso come genere) la sua natura profonda di cupio dissolvi. Il sabba finale è un magnifico e sublime apice grandguignolesco, spaesante e dolente come non si vedeva dai tempi dell’Adilà di Fulci. Lì lo sconfinato mare delle tenebre, deserto funebre delle anime perdute, qui un mare di sangue nel quale è dolce annegare.
Come si arrivi a un risultato tanto potente è certo merito del regista, che oggi padroneggia la macchina cinema a un livello, tanto creativo quanto industriale, come pochi altri nel nostro Paese, ma anche di un comparto di collaboratori scelti d’eccellenza: la qualità sincopata del montaggio di Walter Fasano è evidente fin dalla sequenza d’apertura con la fuggiasca Patricia (Chloe Grace Moretz) nello studio del dottor Klemeperer; la colonna sonora di Thom Yorke seduce e inquieta con dissonanze melodiche e morbidezze avvolgenti; fotografia (Sayombhu Mukdeeprom) e scenografie (Inbal Weinberg) grondano amore per Fassbinder e art déco; e l’idea di coreografare la morte è un’eccellente chiave di volta per un film che parla anche della danza, dell’esercizio della disciplina, della trasfigurazione del corpo, dell’attrazione al suolo dello spirito e dell’elevazione aerea del fisico, tra Maya Deren e Francesca Woodman (le cui tracce aleggiano nelle visioni notturne). Specchio convesso del film di Argento, il Suspiria di Guadagnino si riflette anche in se stesso, con un doppio ruolo per Dakota Johnson (gemellare) e Malgorzata Bela (la madre di Susie e la Morte) e addirittura triplo per Tilda Swinton (Madame Blanc, il dottor Klemperer, Helena Markos).
Il film potrebbe (dovrebbe?) finire con il sabba di sangue ma è forse nell’ultima scena prima dell’enigmatica chiusa che va ricercato lo strato più profondo dell’opera di Guadagnino: l’unica speranza, quella dell’oblio e della dimenticanza, è la più terribile di tutte, e inchioda il nostro tempo alla responsabilità di una rimozione drammatica, a fronte della quale il male si presenta nuovamente all’orizzonte. Anzi, già striscia sotto i nostri occhi.