Nel 2017 Boris Mitić diresse un documentario dal nome In Praise of Nothing, in cui una serie di immagini da tutto il mondo mostrano quello che per il regista serbo è la rappresentazione immaginifica (o immaginata) del nulla. Anfratti di mondo svuotati, o angoli di collettività come vuoto a rendere, che possono significare tutto, oppure, appunto, niente. Il documentario di Hassen Ferhani, 143 Rue du Désert, presentato a Locarno nella sezione Cineasti del Presente, riesce, più o meno involontariamente (poco importa), a costruire una contro tesi rispetto al film di Mitić, dimostrando che anche nei luoghi più svuotati di vita, come un deserto, si celano in realtà una miriade di storie, trasportate dagli avventori che in mezzo a quei luoghi non possono fare altro che passare.

Testimone quasi totemico di queste storie raccolte in mezzo al deserto algerino è Malika (che in arabo significa regina), un’anziana signora che gestisce un piccolo baracchino vicino a una strada, che ogni tanto vede il passaggio di camionisti, pellegrini, turisti e a volte anche migranti. Ogni uomo o donna porta con se una racconto che Malika ascolta con pazienza e che spesso commenta con ironia. L’unica storia di cui non cogliamo l’esatta verità però è proprio quella della protagonista, che ne svela gradualmente e ambiguamente i passaggi, lasciando alle speculazioni dello sguardo del pubblico le eventuali risposte in merito, per lo meno all’inizio. Mentre entriamo nella vita di Malika riusciamo ad acuire la nostra consapevolezza su un non luogo che in realtà brulica di passato, presente e futuro, dove anche il semplice progetto di costruzione di una pompa di benzina può sconvolgere la vita di questa donna e di chi le gravita attorno. Mentre il nulla si dirada e prende spazio una pienezza di senso, la storia di Malika ci viene rivelata attraverso una narrazione fatta di atti e di conflitti via via più chiari, e la verità viene veicolata in questa intercapedine tra immagine e racconto, tra contemplazione della stasi e movimento propulsivo verso un cambiamento.

143 Rue du Désert si modella radicalmente sul corpo e sulla voce della sua protagonista, che oltre a essere una degli ultimi testimoni di un mondo antico, come si evince quasi subito, si fa anche portatrice di una pedagogia dell’osservazione: incarnando cioè la proposta di un cinema gentile, che anche grazie alla sua discrezione e poesia, ci regala una grande lezione di verità, in un mondo in cui quest’ultima viene spesso manipolata e resa sempre più marginale. Poesia dentro la poesia: spingersi fino alla periferia del mondo, per abbracciare un messaggio che si dovrebbe diramare dal suo centro, per sconfiggere la minaccia della superficialità, quella sì pericolosamente confinante con il vuoto.