Guardando il magnifico Space Dogs di Elsa Kremser e Levin Peter, vengono in mente le illuminanti pagine scritte da John Berger sul mancato rispecchiamento tra lo sguardo dell’uomo e quello dell’animale. Pagine che fanno chiarezza sull’arbitrarietà delle geometrie del nostro vivere quotidiano e sociale, e scardinano l’antropocentrismo senza il quale non solo si potrebbe cominciare a pensare un altro mondo ma anche un altro cinema. È quello che fanno i due giovani registi dando vita a un film che si pone il problema di una nuova maniera di osservare e raccontare, non banalmente limitandosi a spostare l’asse di visione, portando la camera ad altezza d’animale, quanto ricercando una forma di narrazione capace di prescindere da schematismi razionalistici e che assecondi invece una dimensione di necessità istintuale dettata dai movimenti dei soggetti filmati.

Ed evidentemente la sfida più grande nel seguire un branco di randagi nei sobborghi di Mosca dev’essere stata quella volta a evitare qualunque tipo di umanizzazione dei cani, cercando ciò che di altro e inconoscibile c’è nella bestia e caso mai mettendolo in relazione con la bestia che è nell’uomo. Così le peregrinazioni notturne lungo i vialoni deserti e la caccia al cibo nei cortili abbandonati diventano l’unica bussola direzionale per i due registi che non solo perlustrano il paesaggio post-urbano guidati dai cani, ma si servono della vicinanza estrema per diventare parte del branco e rinunciare a qualunque istanza giudicante.

Come nella scioccante sequenza dell’aggressione al gatto, cruciale per comprendere gli intenti di un film radicale e rigoroso nelle sue prese di posizione, capace di dialogare con una delle opere più importanti della retrospettiva locarnese di quest’anno, quel White Dog di Samuel Fuller che a oltre trentacinque anni di distanza continua a essere riferimento imprescindibile sul razzismo come dimensione radicata nella società e l’impossibile dialogo tra le specie.

Ma Space Dogs è un film unico anche in virtù di un’originalità strutturale che combina il pedinamento dei cani ai materiali d’archivio con gli esperimenti compiuti sugli animali spediti nello spazio e una voce narrante “cosmica” che interseca ad anelli gli strati di racconto, con l’aiuto di uno score dalle profondità abissali e dalle improvvise aperture melodiche realizzato da John Gürtler e Jan Miserre, quasi elaborato sul sommesso ruggire e sui guaiti dolenti dei cani affamati. Senza dubbio uno dei documentari dell’anno.