Brotherhood è una storia intima e allo stesso tempo universale, capace di raccontare – sfumando i confini tra finzione e documentario – la complessità del tempo presente da un punto di vista sociopolitico e antropologico, ma anche di astrarre da questo tempo per raggiungere i sentimenti profondi condivisi da ogni individuo. Francesco Montagner, vincitore del Pardo d’oro Cineasti del presente al 74° Locarno Film Festival, ha incontrato Tommaso Santambrogio per una lunga conversazione sulle tematiche del film – dalla mascolinità alla ricerca di un’identità, passando dalla necessità di affrontare la scomoda presenza di un’eredità patriarcale – e della sua particolare lavorazione. Accedere allo spazio chiuso della comunità estremista islamica in Bosnia per raccontare il percorso di formazione di tre fratelli è stata una sfida cinematografica e umana non indifferente.

Filmidee: Brotherhood è il racconto di un periodo della vita di tre fratelli bosniaci molto diversi tra di loro, cresciuti in una comunità patriarcale caratterizzata da un invasivo estremismo islamico. Il film in definitiva risulta un intimo e peculiare racconto di formazione, una ricerca della propria identità e del proprio posto nel mondo di ciascuno dei tre fratelli. Cosa ti ha spinto a lavorare su questo soggetto e a che tipo di ricerca hai compiuto a riguardo?

Francesco Montagner: L’idea di Brotherhood ha avuto origine 5 anni fa, quando, seguendo un approfondimento giornalistico, sono incappato nella vicenda di Ibrahim e dei suoi figli Jabir, Usama e Uzeir; la loro è una famiglia di pastori appartenente a una comunità estremista islamica in un contesto geopolitico estremamente delicato: l’umanità e l’intimità dei personaggi in una situazione e condizione simile mi ha incuriosito molto. Le vicende storiche legate al territorio mi avevano sempre affascinato, e da quel momento ho iniziato a prendere contatti con il luogo e le persone che poi hanno dato vita al film. Un altro elemento poi che catturava la mia attenzione era la differente età e le opposte caratterizzazioni di questi ragazzi bosniaci governati da un padre-padrone; mi è sembrata una dinamica comune a molte regioni rurali anche italiane ma con un discorso politico alla base estremamente forte e unico. Ho scelto quindi quasi subito di incentrare la mia ricerca sui ragazzi e sul loro percorso formativo a cavallo dei 23 mesi in cui il padre viene incarcerato per la sua sovversiva militanza religiosa.

La motivazione che mi ha spinto in questa direzione è anche che i personaggi principali del film sono in fondo dei ragazzi dei Balcani che fino a quel momento hanno avuto come unico punto di riferimento un uomo impositivo, duro e rigido. Mi interessava indagare le crepe da cui emergevano i loro sentimenti in un periodo così delicato della vita; mi incuriosiva vedere la loro crescita, le fasi del loro confronto con un mondo esterno a cui si affacciano ma che non gli appartiene e la gestione allo stesso tempo del rapporto con una figura ingombrante come appunto quella del padre. È stato molto difficile riuscire a carpire solamente con le immagini dei loro volti e dei paesaggi della loro quotidianità certe sensazioni, ma mi ha anche molto stimolato. È stato poi senz’altro importante cercare alcune metafore visive che potessero dare voce a quello che sentissero i personaggi.

Fi: Facciamo un breve passo indietro: qual è l’origine del tuo cinema? Qual è stato il tuo percorso e cosa muove la tua ricerca? Qual è l’urgenza alla base della tua arte e il tipo di approccio cinematografico che ti contraddistingue?

FM: È più facile dire dove sono adesso che ripercorrere un vero e proprio percorso. Mi sono sempre legato a un cinema che racconta e affronta delle tematiche contemporanee, che hanno un forte impatto sulle realtà. Lo stesso Brotherhood è film intergenerazionale che tratta delle tematiche sociopolitiche attraverso una vicenda familiare; mi piace lavorare per sottrazione, facendo emergere da un contesto intimo e piccolo delle domande molto più ampie. Nel film si trattano da un lato questioni come la vita quotidiana dei radicali, ma dall’altro anche cosa può succedere e quali sono le conseguenze della guerra balcanica, o anche come queste conseguenze e tracce rimangano sia sul territorio che sulle persone. Per esempio, è impossibile prescindere dalla presenza costante delle mine tra i boschi bosniaci o dall’osservare come questi ragazzi continuino sempre a giocare alla guerra e a inneggiare canzoni di propaganda legate alla guerra.

Mi piacciono anche le storie che riescono ad astrarsi dal tempo e a diventare molto universali, il film che non invecchia, che rimane attuale anche attraverso le decadi. Con Brotherhood volevo dar vita a una favola contemporanea dove le dinamiche tra i personaggi e i loro conflitti avrebbero potuto emergere oggi come duecento, trecento anni fa, anche se appartengono a un contesto sociopolitico molto attuale. Direi poi che il cinema politico degli anni ’70 ha avuto un forte impatto su di me, dai film di Francesco Rosi a Elio Petri e tutta quella generazione di cineasti che raccontava delle storie molto interessanti e nuove per il cinema ma che allo stesso tempo dialogava direttamente con la realtà circostante. Loro sono sempre riusciti a fare una critica sociale mantenendo un certo tipo di asciuttezza che mi ha sempre affascinato; narravano storie dove il contenuto è così forte che a volte finisce anche per prevaricare la forma. Ho provato a seguire questo sentiero, lasciando che i personaggi si prendessero tutto lo spazio necessario: da un lato è la loro storia e dall’altro essendo anche loro dei personaggi rurali, che vengono da un mondo scarno ed essenziale, mi sembrava la tecnica migliore.

Fi: Nel tuo film i luoghi rappresentati diventano protagonisti tanto quanto le persone e contribuiscono a regalarci informazioni e dettagli essenziali per comprendere le persone che li abitano. Sei poi riuscito a catturare le vite e i conflitti che i tre fratelli vivono donando al pubblico tre archetipi di tre fasi differenti della formazione di che un adolescente può vivere in un contesto simile: mentre il fratello maggiore (Jabir) si è già rassegnato al suo ruolo, quello intermedio (Usama) lo mette in dubbio mostrandoci tutte le incertezze e le fragilità che poi lo portano, nell’arco del film, a una specifica evoluzione. Il fratello minore (Uzeir) è ancora ingenuo e con lo sviluppo del film scopre e prende coscienza della realtà e delle sfide che dovrà affrontare nella vita. Questo trittico evolve all’interno di una storia che ha un tempo definito ma che riesce anche ad uscire dal tempo.

FM: Sì, il discorso sul tempo è stato un elemento cruciale nella costruzione del film. Con Valentina (Valentina Cicogna, montatrice del film, ndr) abbiamo cercato di lavorare moltissimo cercando di fare una cosa non comunissima nel documentario, e cioè di far vedere sullo schermo due cose che avvenivano in contemporaneità; generalmente per l’impossibilità di essere in due posti allo stesso tempo il rischio è che sia considerato un errore. Per esempio, quando i fratelli sono nella stessa discoteca – quello maggiore all’interno e quello minore all’esterno – abbiamo creato una danza tra il dentro e il fuori; Usama non può entrare dentro ed è frustrato per questo, mentre Jabir è dentro ma è frustrato perché si sente fuori luogo.

Abbiamo poi cercato di dividere il tempo in maniera equa tra i personaggi: ho incontrato tre fratelli con caratteri molto diversi e mi ha affascinato l’idea di lavorare sulle loro diverse attitudini e personalità. Jabir, il fratello maggiore, non appena il padre è lontano, si scarica di qualsiasi responsabilità e si allontana dalla casa paterna. È rassegnato al suo ruolo ma al contempo cerca di declinare la sua vita in base a delle esigenze che lo attraversano, come quella di scoprire maggiormente l’universo femminile.

Usama, il fratello di mezzo, è quello più drammatico e tragico ed è quello in cui mi identifico maggiormente; è un personaggio che tiene alle cose e che cerca di far quadrare tutto anche quando si tratta di battaglie che appartengono di più alla dottrina del padre che a delle sue esigenze e motivazioni; nel positivo e negativo, comunque, il padre incorpora dei valori che ha trasmesso ai ragazzi e Usama è l’unico che cerca di mantenere la fratellanza assieme secondo questi valori. Poi il film è soprattutto il percorso di Uzeir, il piccolo, che è l’unico che per la fascia d’età non ha ancora deciso cosa vuole essere; Uzeir attraversa un momento che in letteratura si esprime molto più facilmente rispetto al documentario, che è la fase in cui ti rendi conto esattamente in che famiglia sei cresciuto, a cosa appartieni. Nel suo caso questa epifania avviene subito dopo il momento in cui ha visto il fratello molto amato e a cui è più legato (Usama) diventare una persona diversa, violenta, nei confronti di se stesso e delle pecore che aveva sempre curato con amore.

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Fi: Parlando della scrittura della storia e di quella dei personaggi, come hai deciso la dinamica della storia? Come ti sei inserito in questo contesto? Hai scelto prima un tema che facesse da filo conduttore o l’hai trovato seguendo i tuoi personaggi? Potremmo pensare al film come a un blocco di marmo da cui far emergere una statua, un’opera d’arte; quali sono state in questo senso le fasi che hanno permesso un progressivo sgrezzamento? Come sei arrivato gradualmente a questo risultato e quali sono stati i momenti più difficili?

FM: Il film lo abbiamo scritto tantissimo durante le riprese. Io sono arrivato quando la maggior parte dei giochi erano già fatti (il padre era già sotto processo e sapevamo che era molto probabile che sarebbe finito in prigione); l’unica mia necessità era seguire questa evoluzione e catturarla con la camera. La parte più difficile è arrivata poi: esattamente come i ragazzi cercano la loro identità dopo la perdita di questo riferimento patriarcale, come regista e documentarista abbiamo dovuto cercare la nostra identità rispetto all’identità della storia. Quindi è stato un processo molto lungo; abbiamo brancolato per un po’ nel buio, per poi capire però molto presto che la fratellanza si sarebbe disgregata e frammentata per le differenze ed esigenze diverse dei tre fratelli. Abbiamo quindi dovuto seguire e capire quali fossero i loro rispettivi mondi, e quali erano gli elementi cardine che rappresentavano il loro percorso.

Ciascuno di loro ha degli elementi differenti rispetto agli altri: il mondo del fratello più piccolo è caratterizzato dalla scuola e dalle amicizie, quello del fratello di mezzo dal suo percorso di formazione come uomo a stretto contatto con i pastori e con le pecore, e con la durezza della transumanza; il fratello maggiore cerca invece di andare sempre di più verso un mondo femminile che non conosce e con cui cerca un dialogo, non avendone mai avuto uno. Devo ringraziare i ragazzi per avermi concesso di accedere al loro universo e per la loro sincerità e apertura, perché per come sono le persone di montagna (soprattutto nei Balcani) non è facile superare certe barriere, anche se una volta rotta questa iniziale di diffidenza tutto diventa molto più agile e accessibile.

Fi: Hai parlato di estremismo senza esplicitarlo più del necessario e soprattutto senza dare giudizi; hai parlato delle figure femminili in una comunità simile evidenziando la loro assenza; hai in definitiva giocato su dei gap come cardini della narrazione, non raccontandoli ma permettendo che vengano percepiti. Come ti è venuta l’idea di raccontare delle sensazioni e dei sentimenti in questa maniera?

FM: La verità è che questi gap e queste assenze sono talmente presenti e forti nella loro realtà che li senti in maniera tangibile e non puoi fare a meno di dar loro un certo peso. Ti viene anzi da evidenziare gli elementi in contrasto che accentuano queste mancanze e le rendono più esplicite, come la fisicità di ogni loro rapporto o la muscolarità della relazione che hanno tra loro. Questo è necessariamente passato anche al modo in cui abbiamo deciso di relazionarci con loro con la macchina da presa, che ci ha aiutato a rappresentare un mondo che, nel bene e nel male, è molto maschile e che ha bisogno di uno sfogo fisico che evidenzia ancora di più l’assenza della femminilità e della madre nello specifico.

L’assenza di un riferimento femminile che appartenga al loro mondo (e non alla società che vive al di fuori del loro micro-universo) si è delineata come una necessità spontanea, perché il loro è un mondo di uomini, dove le regole le definiscono gli uomini e dove loro stessi riescono a relazionarsi intimamente solo con altri uomini; alla fine Brotherhood è anche una storia di tre ragazzi molto timidi, che hanno molta difficoltà a rapportarsi con il mondo femminile (sia per la tipologia di comunità in cui vivono ma anche per il tipo di lavoro che svolgono). Prima di tutto in definitiva ho dovuto realizzare quali erano gli archetipi dei personaggi e successivamente concentrarmi su quegli aspetti. Alcune di queste cose sono poi venute più semplici, mentre altre no.

Fi: Si intuisce come i personaggi che racconti siano molto delicati e come la ricerca che hai fatto sia andata nella direzione di trasmettere l’intimità di un mondo che a un primo impatto non ci può che apparire come violento.

FM: Esatto, quella era l’intenzione. È stato difficile, ma da un lato quando ti rapporti con un mondo così patriarcale e maschile scopri e ricorri, sia come autore che come direttore della fotografia (Prokop Soucek, ndr), al tuo lato più femminile, esponendoti in un determinato modo. È poi inevitabile per me amare i personaggi che racconto, e anche in questo caso è stato importante trovare i giusti strumenti per farlo, il giusto linguaggio per far emergere la loro stratificazione. Abbiamo cercato di dare un giusto valore a quel mondo, senza mai arrivare a giudicarlo, e abbiamo cercato di capirlo e di capirne i suoi attori principali sempre ragionando nell’ottica secondo cui, come loro sono nati e cresciuti in quel contesto, così poteva capitare anche a noi.

Quella del mondo rurale dei Balcani è il tipo di violenza e crudezza che, so per esperienza, viene trasmessa dalla terra e dalla natura. Devi essere un po’ un’anima pura per riuscire a vivere con serenità (soprattutto nel mondo contemporaneo, con telefoni, social network e i videogiochi che ti contaminano). Parlando dei telefoni, è stato interessante introdurli nel film, in quanto sono la porta che i ragazzi hanno per entrare nel mondo contemporaneo; il telefono è forse stata la cosa che ha anche più distrutto la vita del padre, e che ha permesso dall’altro lato ai ragazzi di volere qualcosa di completamente diverso, che non avrebbero potuto conoscere se non tramite quella porta.

Le figure delle maestre per il fratello più piccolo e del pastore amico di Usama sono i portavoce del mio sguardo sul film; in un contesto in cui lavori con degli adolescenti che non sono coscienti di sé e di quello che gli accade, questi personaggi esterni regalano ai personaggi stessi e a noi come pubblico una prospettiva, pongono le cose sotto una luce più chiara e analitica. Relativizzano poi anche la storia, dicendoci che questa è la vita di una comunità e di una famiglia che non rappresenta tutta la Bosnia ma un contesto specifico. Avevo bisogno di alcune voci che lo esplicitassero e lo contestualizzassero: l’altra Bosnia è rappresentata da tutte le persone che non condividono il mondo del padre, di Ibrahim; ho cercato e volevo una rappresentazione e una presenza anche di persone che cercano di far fare un percorso decente alla vita dei tre fratelli.

Fi: Tu Francesco sei un regista che ha fatto un percorso internazionale, che porta avanti un discorso cinematografico documentaristico e antropologico e che ricerca un dialogo costante su tematiche sociopolitiche. Rispetto al contesto italiano contemporaneo come ti senti? Senti di far parte di un gruppo nutrito di autori con gli stessi valori oppure no?

FM: A essere onesto no. Mi spiego: in relazione al contesto italiano ciò che come autore sento assente è un discorso sul presente da parte del cinema italiano; indipendentemente dalla forma, dallo stile, che si tratti di un film documentaristico o di finzione, quello che sento è che non si riflette abbastanza su tematiche e componenti sociologiche e antropologiche che mettono le radici nel contesto e nella realtà contemporanea.

Stimo molto quei colleghi italiani o non (come Alexander Nanau) che in film come Toto e le sue sorelle (che abbiamo usato come riferimento in fase di montaggio) o Collective fanno una ricerca investigativa lasciando allo stesso tempo un grande respiro all’umano all’opera. Collective per l’appunto ha una dimensione narrativa da cinema di finzione ma allo stesso tempo porta sullo schermo una riflessione umana sul presente. Volendo fare una critica al cinema italiano si guarda spesso troppo al passato (con spirito perlopiù nostalgico) rispetto a guardare al presente e al futuro. Il tema della memoria è sacro ma sarebbe bello che si investisse su un percorso di cinema, dove si pone l’accento sull’analisi storica ma ci si misura anche con la realtà che ci circonda e con le esigenze del presente.

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