Per Lorenz Merz la giovinezza è soprattutto la possibilità di vedere la realtà attraverso l’immaginazione. In Soul of a Beast, presentato in Concorso a Locarno 74, la problematica adolescenza di Gabriel è raccontata infatti in uno stato di dormiveglia sognante, in cui la credibilità del reale e le sue regole si piegano ai desideri e agli sprint emotivi dell’ingenuità e della spensieratezza: è la capacità di immaginare che il mondo possa trasformarsi secondo i propri desideri a distinguere la vita dei ragazzi e quella degli adulti. Questa fede nella potenza dei desideri, questa fiducia nei confronti della propria felicità genera una inevitabile lotta con la realtà, che invece tira la fune dal lato opposto piantando i piedi in principi di compromesso e responsabilità difficili da accettare. Per Gabriel questo scontro è vissuto nel bivio (molto autobiografico per il regista) davanti a cui è messo di fronte: giovanissimo padre di un bambino piccolo, è diviso tra doveri più grandi di lui e l’amore per una ragazza che gli propone di evadere dalla realtà in cui sembra costretto.

Il film si confronta con la risposta emotiva del ragazzo a questa scelta di campo senza segnaletica, cercando di sintonizzarsi continuamente sull’euforia o sulla malinconia del suo punto di vista a seconda dei rovesci esistenziali che lo ribaltano. E infatti è un continuo accelerare (soprattutto formale) e rallentare, dove l’accelerare prende in prestito senza troppe virgolette l’immaginario romantico di Wong Kar-wai – tra la frustrazione di fronte a un destino impossibile da far proprio e le continue rivincite in cui si cerca di superare questa stessa rassegnazione – e il rallentare invece si affida all’intensità degli interpreti, che devono raffreddarsi per lasciare emergere il senso di possibile sconfitta che va a braccetto con le continue scommesse, i continui rilanci. Ciò che sta in mezzo a questi due estremi è l’agitazione di una scrittura sempre stressata per rendere sullo schermo quell’immaginazione di cui sopra, un’agitazione – che sembra il tratto più personale di Merz, forse ancora troppo attaccato ai modelli ispiratori – che realizza assurde fantasie con altrettanto assurde letteralità e pensa per metafore evidenti (fin dal titolo) ma non per questo consunte.

L’evento centrale del film risponde a questa logica metaforica: quando il protagonista, assieme a Corey, la ragazza di cui è innamorato, e al suo migliore amico Joey liberano dallo zoo degli animali, viene dato il via a quella che sembra un’apocalisse urbana, tra puma selvaggi in libertà e una giraffa che vaga contro i lampioni. Non è difficile pensare agli animali come a esplicitazioni degli stati d’animo dei protagonisti e dei loro conflitti, simboli che sussistono solo come risultati della visione immaginifica che i personaggi hanno del loro mondo. Allo stesso modo, il senso di apocalisse incombente che cresce assieme agli eventi è un’inflazione fantastica, una bolla di sapone che però impatta fortissimo sulla coscienza di chi la sente come reale. Almeno fino a quando la realtà non incombe nella sua veste non più disponibile al contratto con l’immaginazione, spezzando la fantasia e la possibilità che la fantasia portava con sé. Quando un evento tragico tocca il protagonista, il film sceglie infatti giustamente di strappare la pellicola metaforica per lasciare posto alla durezza di una feroce chiamata, che chiude gli occhi alla giovinezza e apre quelli del mondo adulto. [Leonardo Strano]

Soul of a Beast fa parte della rassegna Locarno a Milano, in cui i migliori film del 74° Locarno Film Festival verranno presentati al Cinema Arlecchino di Milano. Per info e biglietti vai su lombardiaspettacolo.com


Combattere contro la realtà

il legionario pic

A Roma, sembra che Daniele sia proprio tagliato per fare il celerino. Un agente stimato e accettato dai colleghi, malgrado il colore della sua pelle, in attesa di diventare padre. Dall’altra parte, un palazzo occupato da tante famiglie fra cui, sfortunatamente, una parte della sua: madre e fratello. Ma il giorno dello sgombero si avvicina, e Daniele si troverà a compiere una scelta difficile.

Presentato nel Concorso Cineasti del Presente di Locarno 74, Il legionario mette in scena un racconto esemplare che parla della nostra nazione e delle sue pericolose contraddizioni. In un’Italia dove il ruolo sociale impone inevitabilmente modi e pensieri codificati, entrano in gioco i sentimenti delle persone. Soprattutto quelli dei nuovi cittadini, gli immigrati di prima e seconda generazione, ingabbiati nella logica razzista e burocratica alla base del nostro Paese. Nella sua brillante opera prima, il regista bielorusso naturalizzato italiano Hleb Papou getta luce attraverso i meccanismi arrugginiti della nostra struttura politica, riflettendo sui sistemi di controllo nel cuore più umano di chi li compone. I poliziotti e gli assistenti sociali, i poveri di spirito contro i veri poveri ma idealisti, le famiglie tradizionali intrise di nuove tradizioni. Oltre alle infinite etichette che generano solo scissione, restano l’uomo e la sua storia, per ognuno particolare e per ciascuno essenziale. La forza del film sta proprio nell’evidenziare come le necessità personali siano costrette a infrangersi contro lo scudo di una macchina sociale intollerante e anaffettiva.

In un periodo in cui il cinema italiano cavalca incerta l’onda del multiculturalismo, col sentore che si tratti solo dell’ennesima scusa per macinare ancora spettacolo mediatico all’acqua di rose (vedi la serie Netflix Zero), Papou esprime con franchezza la sua opinione a riguardo: non ha molto senso parlare di culture, dato che siamo già figli di una nuova nazione interculturale. Ciò che sembra più urgente, è invece sondare le ferite di una società vittima di quella che Fanon chiamava la sindrome della “pelle nera, maschera bianca”. Un cinema davvero “sociale” si dovrebbe far carico delle contraddizioni di cui il mondo è palcoscenico, e raccontarle con coraggio.

Per non ridursi a un discorso della materia sterile, approviamo quindi la scelta del linguaggio con cui viene raccontata questa storia: lontano dalle velleità del cinema “raffinato”, il regista utilizza il cinema d’azione con l’obiettivo, e il piacere, di raggiungere il più vasto bacino d’utenza (com’era stato già per  Il profeta di Audiard o Sicario di Villeneuve). Attraverso scelte di messinscena mai troppo brutali e gratuite, ma ponderate e dirette, Il legionario non si limita a porre delle domande allo spettatore, ma invoca chiaramente una presa di coscienza generale: siamo tutti estranei, in quanto fratelli. [Davide Perego]


Holy sister

agia emi

If I only could, I’d make a deal with God, And I’d get him toswap our places,

Be running up that road,

Be running up that hill.

(Kate Bush, Running up that hill)

Agia Emi è il primo lungometraggio della giovane regista greca Araceli Lemos, presentato nel Concorso Cineasti del Presente di Locarno 74. Una storia che si snoda tra le vie portuali di Atene, ma che affonda le sue radici in una tradizione ben più lontana, quella filippina. La Grecia è sfondo del melting pot di culture che la abitano, del mélange migratorio e delle difficoltà sociali della sua capitale: la regista individua in questo gomitolo di spunti e deviazioni la propria strada e la percorre attraverso uno sguardo del tutto nuovo che si discosta totalmente dalle reiterazioni del cinema greco contemporaneo a cui siamo abituati.

Agia Emi narra la storia di due sorelle, Emi e Teresa, che vivono all’interno della comunità cattolica filippina di Atene: lì sono sole, sotto lo sguardo di un’amica della madre tornata nelle Filippine. Il mondo della comunità, talmente radicato e forte al punto da sfiorare quasi il folkloristico, si scontra ben presto con altri sistemi: le pratiche crude della realtà maschile, l’intimo nido delle due sorelle e quello sovraterreno e misterioso di Emi. Emi piange sangue dagli occhi e fin da subito ci appare come una figura sacra, una santa femminile e anomala, lontana dalle classiche raffigurazioni divinatorie cristiane. Emi è scomposta, ferina, sensuale, rozza, emblema di un potere mistico antico: non è battezzata e per questo indesiderata dai membri della comunità cattolica, alla quale appartiene anche la sorella.

La sua femminilità è colta dall’intelligenza della scrittura e dalla visione della regista fin dai primi minuti del film, a partire dal rapporto sessuale di Teresa con un uomo di origini albanese che lavora al porto, del quale rimarrà poi incinta: la forza di Emi si manifesta in quel momento, scatenata dalla rabbia e dall’amore per la sorella e proseguirà nel suo costante difendersi da coloro che vogliono approfittarsi del suo potere. Agia Emi è un coming of age atipico, una storia di redenzione, di cura, colma di gesti d’affetto; le due sorelle sembrano essere lì al solo scopo di proteggersi l’una dall’altra, allontanandosi e avvicinandosi in un tacito patto di fiducia che non necessita mai di spiegazioni e va al di là di ogni diversità, al di là del divino. La camera di Lemos segue e racconta in maniera del tutto nuova un legame indissolubile di sorellanza e di mistica ribellione femminile attraverso due personalità che non sanno vivere l’una senza l’altra. [Vanessa Mangiavacca]

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